Criticità della normativa in tema di assistenza sociale per gli extracomunitari in Italia

Critical social welfare legislation for non community in Italy

Salvatore Loria

Instituto de Migraciones

Universidad de Granada

studiodottloria@gmail.com 0000-0001-9413-9385

e-Revista Internacional de la Protección Social ▶ 2021

Vol. VI ▶Nº 1 ▶ pp. 324-342

DOI: https://dx.doi.org/10.12795/e-RIPS.2021.i01.15

Recibido: 03.05.2021 | Aceptado: 07.06.2021

RIASSUNTO

PAROLE CHIAVE

Attraverso l’esame della normativa, italiana e comunitaria, nonché delle pronunce giurisprudenziali delle diverse Corti, si tenta di individuare –anche se non in maniera esaustiva e definitiva– le criticità della stessa normativa in tema di assistenza sociale per gli extracomunitari presenti nel territorio italiano e proporre riforme che siano effettivamente in grado di incidere strutturalmente sull’attuale sistema di protezione sociale che attualmente esclude una parte della popolazione e, nello specifico, la popolazione straniera povera.

Welfare

Immigrati

Assistenza sociale

Diritto all’abitazione

Diritto alla salute

ABSTRACT

KEYWORDS

By the examination of Italian and Community legislation, and the judgments of the various Courts, we will try to locate - even if not exhaustively and definitively - the criticalities of the same legislation in the matter of social assistance for non-EU present in the Italian territory and propose reforms that are actually capable of structurally affecting the current social protection system that currently excludes a part of the population and, specifically, the poor foreign population.

Welfare

Immigrants

Social assistance

Right to housing

Right to health

Sommario

I. INTRODUZIONE

II. IL DIRITTO COSTITUZIONALE ALL’ASSISTENZA SOCIALE

III. IL SISTEMA DI SICUREZZA SOCIALE IN ITALIA

IV. LE RESTRIZIONI DELLE PRESTAZIONI PREVIDENZIALI PER GLI IMMIGRATI

V. LE SENTENZE DELLA CORTE COSTITUZIONALE

VI. IL DIRITTO SOCIALE DEGLI STRANIERI AD UN ALLOGGIO

VII. IL DIRITTO ALLA SALUTE NEGATO

VIII. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Bibliografia

I. INTRODUZIONE^

Parlare di welfare per gli immigrati e, in particolar modo, per gli immigrati irregolari risulta abbastanza complesso e non solo per l’applicazione delle norme che, a volte, non contemplano espressamente alcune fattispecie che cercheremo di esaminare, ma anche perché bisogna superare la mentalità di una parte della società che –a torto– ritiene che questa «categoria» di soggetti non avrebbe diritto ad accedere a questo tipo d’intervento[ 1 ].

La pluralità di prestazioni previste dalla normativa italiana che trova origine nell’art. 38 della Costituzione, prevedono requisiti reddituali oltre che di residenza e soggiorno che cambiano a seconda della prestazione richiesta risultando, pertanto, di non facile individuazione anche per via di una legislazione frammentaria ed inorganica.

Si cercherà, ovviamente senza alcuna pretesa di esaustività, ad individuare le criticità della normativa in tema di assistenza sociale per gli extracomunitari presenti nel territorio italiano in maniera legale e, con particolare riguardo, per gli erroneamente definiti immigrati illegali e che mi piace, invece, chiamare «immigrati senza regolari documenti di soggiorno»[ 2 ] per tentare di dimostrare l’irrazionalità di norme che di fatto li escludono dal sistema di solidarietà costruito faticosamente nell’UE.

II. IL DIRITTO COSTITUZIONALE ALL’ASSISTENZA SOCIALE^

Il diritto all’assistenza sociale –giusta previsione costituzionale dell’art. 38– nell’affermare il «diritto al mantenimento e all’assistenza sociale» di chi è «sprovvisto di mezzi necessari per vivere» premette l’allocuzione «cittadino» che rappresenta la netta linea di demarcazione attraverso la quale si crea una prima discriminazione tra lo status di cittadino e lo status di straniero, risultando tra l’altro, in netta antitesi con l’apertura universalistica impressa dall’art. 2 della stessa Costituzione che riconosce tout court i diritti inviolabili dell’uomo in ogni sua accezione.

Gli elementi essenziali per la sussistenza, ovvero tutto ciò che è necessario per la sopravvivenza, rientrando tra i diritti essenziali naturali –e quindi teoricamente senza bisogno di alcuna codificazione– dovrebbero essere assicurati a tutti a ciascuno, a prescindere dallo status giuridico, proprio perché diritti fondamentali che assumono una dimensione universalistica svincolata dall’appartenenza o meno a un determinato territorio.

Anche la Corte costituzionale, in più occasioni, ha ribadito il principio che i diritti fondamentali ed inviolabili dell’uomo sono diritti di tutti, di cittadini e stranieri, secondo il principio di uguaglianza espresso dall’art. 3 Cost. e che rafforza quanto previsto dal precedente art. 2 che nell’affermazione della tutela dei diritti inviolabili dell’uomo non fa alcuna distinzione tra cittadini e stranieri[ 3 ].

D’altro canto, la Corte afferma che «la eguaglianza (…) fra il cittadino e lo straniero nella tutela dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 della Costituzione) e nei diritti allo straniero riconosciuti dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali nell’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10, secondo e primo comma della Costituzione)»[ 4 ].

Anche in altra occasione la Corte cost. ha espresso il «punto di vista che il principio di eguaglianza, pur essendo nell’art. 3 della Costituzione riferito ai cittadini, debba ritenersi esteso agli stranieri allorché si tratti della tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, garantiti allo straniero anche in conformità dell’ordinamento internazionale»[ 5 ].

La portata dell’art. 2 della Costituzione emerge fin dalla relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini che accompagnava il Progetto di Costituzione della Repubblica italiana e che testualmente affermava che «Preliminare ad ogni altra esigenza è il rispetto della personalità umana» in generale e senza distinzione alcuna tra cittadini e stranieri, ovvero delineava il vero scopo dell’enunciato costituzionale: la promozione della persona che deve essere «accompagnata» per colmare le eventuali differenze, compito quest’ultimo affidato al secondo comma dell’art. 3[ 6 ].

III. IL SISTEMA DI SICUREZZA SOCIALE IN ITALIA^

Il sistema di sicurezza sociale italiano, improntato secondo i principi sanciti dagli artt. 4, 32 e 35 della Costituzione, tutela i diritti fondamentali alla salute e alla sicurezza sul lavoro, attraverso due canali principali: l’assistenza sanitaria e le prestazioni economiche varie, quali malattia, maternità e paternità, pensione invalidità, anzianità e invalidità, pensione ai superstiti, indennità e rendite in caso di infortuni sul lavoro e malattie professionali, assegni per il nucleo familiare, la disoccupazione, il reddito minimo garantito e l’assistenza di lunga durata.

In particolare, si articola in tre settori rispettivamente gestiti dall’INPS –che nasce nel 1898 con la costituzione della Cassa Nazionale di previdenza per l’invalidità e per la vecchiaia degli operai (Legge 17 luglio 1898, n. 350)– dall’INAIL –nasce nel marzo 1933, dall’unificazione della Cassa nazionale infortuni e delle Casse private di assicurazione– e dal Servizio Sanitario Nazionale –istituito con Legge 883 del 23 dicembre 1978 SSN)–.

L’Inps (Istituto Nazionale di Previdenza Sociale) che rappresenta il più grande ed importante istituto previdenziale italiano, assicura la quasi totalità dei lavoratori dipendenti del settore privato e da ultimo anche quelli del settore pubblico. L’assicurazione previdenziale di altre categorie –giornalisti, medici, ingegneri ed altre professioni varie– viene garantita da Casse autonome[ 7 ].

L’attività principale dell’Inps consiste essenzialmente nell’erogazione di prestazioni previdenziali ed assistenziali; le prime sono correlate e proporzionate in base ai contributi previdenziali versati, mente per le seconde gli oneri di erogazione ricadono interamente sullo Stato e sugli enti locali. Oltre alla previdenza –erogazione delle pensioni di anzianità, vecchiaia, invalidità ed ai superstiti– l’Inps provvede anche ai pagamenti di tutte le prestazioni a sostegno del reddito –la disoccupazione, la malattia, la maternità, la cassa integrazione, il trattamento di fine rapporto– e di quelle che agevolano coloro che hanno redditi modesti e famiglie numerose, quali l’assegno per il nucleo familiare, gli assegni di sostegno per la maternità e per i nuclei familiari concessi dai Comuni.

L’Inail –Istituto nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro– svolge attività di prevenzione dei rischi lavorativi, di informazione, di formazione e assistenza in materia di sicurezza e salute sul lavoro. Ha istituzionalmente il compito di contribuire, attraverso un sistema integrato di tutela dei lavoratori, alla riduzione dei rischi di infortuni sul lavoro e sulle malattie riconducibili a quelle c.d. «professionali». L’Istituto, inoltre, assicura l’erogazione di prestazioni economiche, sanitarie ed integrative, ai lavoratori che subiscono un infortunio sul lavoro o contraggono una malattia professionale.

Il Servizio sanitario nazionale (SSN) è un sistema di strutture e servizi che hanno lo scopo di garantire a tutti i cittadini, in condizioni di uguaglianza, l’accesso universale all’erogazione equa delle prestazioni sanitarie, in attuazione dell’art. 32 della Costituzione[ 8 ]; i principi fondamentali su cui si basa il SSN fin dalla sua istituzione, sono l’universalità (estensione delle prestazioni sanitarie a tutta la popolazione), l’uguaglianza (tutti devono accedere alle prestazioni del SSN senza nessuna distinzione di condizioni individuali, sociali ed economiche) e l’equità (a tutti i cittadini deve essere garantita parità di accesso in rapporto a uguali bisogni di salute).

Come è agevole comprendere, la normativa italiana in tema di assistenza sociale prevista per i cittadini è abbastanza attenta a garantire i mezzi necessari a chiunque risulti sprovvisto dei mezzi necessari per vivere e ad assicurare agli stessi il diritto fondamentale alla salute anche a coloro che rivestono lo status di indigenti.

Per gli stranieri non comunitari, purtroppo, negli ultimi anni la produzione legislativa ha snaturato e ribaltato quanto già previsto dalla legge n. 40/1998 che istituiva una completa equiparazione tra italiani ed immigrati sia nel settore della previdenza che nell’assistenza sociale; ripensamenti legislativi hanno, purtroppo, circoscritto la platea degli aventi diritto all’assistenza solamente agli immigrati c.d. «lungo soggiornanti» che è stata, fortunatamente, riconosciuta incostituzionale[ 9 ].

Sembra, inoltre, opportuno evidenziare –incoerenza tra quanto proclamato e poi legiferato– che il legislatore italiano ha innalzato a venti anni il requisito contributivo per l’ottenimento della pensione di vecchiaia per tutti i contribuenti, ignorando che molti Paesi di origine degli immigrati non sono legati al nostro Paese da convenzioni che consentano la totalizzazione dei periodi assicurativi[ 10 ].

Il legislatore, in effetti, ha effettuato le restrizioni che abbiamo richiamato, ignorando che gli stranieri pensionati in realtà sono pochi. Basti pensare che su 16 milioni di pensionati, attualmente in Italia, gli stranieri sono circa 130.000 - meno dell’1% del totale – che rappresentano una spesa complessiva di circa 700 milioni di euro. Per quel che riguarda invece i contributi previdenziali occorre evidenziare il gettito contributivo proveniente proprio dal lavoro degli extracomunitari –quasi due milioni e cinquecentomila– che, secondo un noto rapporto, versano all’Inps oltre 10,9 miliardi di euro l’anno. È innegabile, dunque, che gli stranieri contribuiscono fattivamente al finanziamento del sistema previdenziale e che consente il pagamento delle prestazioni previdenziali per tutta la popolazione anziana[ 11 ].

IV. LE RESTRIZIONI DELLE PRESTAZIONI PREVIDENZIALI PER GLI IMMIGRATI^

Anche se la percezione nella maggioranza dei cittadini è che gli immigrati extracomunitari attingono a prestazioni assistenziali in maniera discriminata, nella realtà esistono restrizioni che l’INPS e gli Enti locali, vanno valere perché normativamente richiedono sempre la titolarità di un permesso di soggiorno di lungo periodo anche se, effettivamente, il maggiore bisogno di assistenza si renderebbe necessario soprattutto nella prima fase di presenza, quando ancora non si può avere titolo a tale permesso per il ridotto numero di anni di permanenza in Italia, occorrendo almeno cinque anni di ininterrotta residenza.

In pratica, chi non è titolare di un permesso di soggiorno di lungo periodo o non riveste lo status di rifugiato politico, risulta escluso dalla maggior parte delle prestazioni assistenziali e, in particolare, dalle seguenti prestazioni: assegno di maternità (art. 74 D.lgs. 151/2001); Assegno per il nucleo familiare numeroso: art. 65 L 488/1998 per le famiglie con almeno 3 figli e art. 1, comma 130, L.190/14 (bonus quarto figlio); SIA –sostegno per l’inclusione attiva (DM 26.5.2016 modificata dal DM 29.4.2017, prestazione non più in vigore in quanto sostituita dal Reddito di inserimento); Carta acquisti ordinaria (art. 81, comma 32 D.L. 112/08 convertito in Legge 133/08; Carta acquisti sperimentale (DM 10 gennaio 2013); premio alla nascita (art. 1 comma 353 della L. di Bilancio 2017– L.11 dicembre 2016 n. 232 pubblicata in GU il 21.12.206); bonus asilo nido (art.1 comma 355 – L.11 dicembre 2016 n. 232).

Si tratta di una palese violazione di quanto previsto dal legislatore comunitario all’art. 12 della direttiva UE 2011/98 che sancisce la parità nell’accesso alla sicurezza sociale tra cittadini comunitari ed extracomunitari, a prescindere se titolari di un rapporto di lavoro in essere, oppure se semplicemente in possesso di un titolo di soggiorno che riconosce la possibilità di lavorare[ 12 ]. La stessa norma comunitaria ricomprende anche espressamente, i familiari del lavoratore di un paese terzo che sono ammessi nello Stato membro in conformità della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, e riguardante il diritto al ricongiungimento familiare.

Subordinare il riconoscimento delle prestazioni previdenziali ed assistenziali esclusivamente ai cittadini degli stati extracomunitari in possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo crea una disparità di trattamento fra cittadini italiani e stranieri che, nel caso in cui questi ultimi siano anche «lavoratori», viola- come già ribadito - la direttiva 2011/98/UE, che non prevede alcuna possibilità di deroga, né per le prestazioni non essenziali né per quelle essenziali[ 13 ].

La nozione di soggiorno, infatti, non può essere esclusivamente ricollegata alla titolarità del permesso di soggiorno di lunga durata, ma semplicemente alla legalità del soggiorno, nonché, come precisato dalla Corte costituzionale, al suo carattere «non episodico né occasionale»[ 14 ].

La Corte costituzionale, a partire dalla sentenza 187/2000 con la quale decidendo in tema di assegno di invalidità civile, ha superato il requisito del permesso di lungo periodo –riferito sia al reddito minimo che al soggiorno quinquennale– argomentando sulla inammissibilità in generale di qualsiasi limitazione basata sul titolo di soggiorno o sulla cittadinanza per quanto riguarda l’accesso a prestazioni volte a sopperire ai bisogni essenziali della vita.

Definitivamente, si deve alla pronuncia della Corte –sentenza 40/2013– con la quale viene affermato che «qualsiasi discrimine fra cittadini e stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi da quelli previsti per la generalità dei soggetti, finisce per risultare in contrasto con il principio di non discriminazione di cui all’art. 14 della CEDU, avuto riguardo alla interpretazione rigorosa che di tale norma è stata offerta dalla giurisprudenza della Corte europea», la caducazione del requisito, prima considerato essenziale, della residenza.

La previsione di un regime restrittivo nell’erogazione di prestazioni contrasta contro il dovere di assistenza e di solidarietà previsti dall’art. 2 della Costituzione oltre che dalle diverse convenzioni internazionali, nei confronti di cittadini extracomunitari, legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato da tempo apprezzabile ed in modo non episodico, perché ogni norma che impone «distinzioni fra varie categorie di persone in ragione della cittadinanza e della residenza per regolare l’accesso alle prestazioni sociali deve pur sempre rispondere al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.»[ 15 ].

I diritti negati dalla legislazione ordinaria e, per fortuna, riaffermati dalla Corte Europea dei diritti umani, dalla Corte costituzionale, dalla Corte di Cassazione e da numerose sentenze dei giudici di merito, dovrebbero essere riconosciuti e attribuibili a tutti ed a ciascuno, a prescindere dall’appartenenza ad un determinato territorio «o perché nati da determinati genitori, ovvero superando il concetto restrittivo e, per certi versi, anacronistico di cittadinanza e assumendo una visione destrutturata di sovranità che superi i vecchi meccanismi di esclusione e discriminazione propri dello Stato assoluto, ovvero che, una volta per tutte, sia scollata dal territorio»[ 16 ].

Dovrebbe, in pratica, entrare nella mentalità corrente di tutti che il principio «innovativo» affermato dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo che i diritti fondamentali sono diritti diversi da tutti gli altri in quanto gerarchicamente appartenerti alle fonti primarie del diritto, ovvero alla Costituzione, li qualifichi come diritti spettanti a ciascun essere umano considerando la cittadinanza in senso universalistico.

Anche la Corte dei conti, con la nota sentenza 144 del 4 agosto 2016 ha posto un freno alle politiche restrittive, in materia di prestazioni assistenziali per gli immigrati, a livello locale. L alle politiche restrittive, in materia di prestazioni assistenziali per gli immigrati, a livello locale. La Corte era chiamata a giudicare il regolamento esitato dal consiglio comunale di Tradate –piccolo comune in provincia di Varese di diciottomila abitanti– con il quale il Bonus Bebè veniva concesso esclusivamente ai neonati da entrambi i genitori italiani, discriminando di conseguenza perfino i bambini italiani nati da un solo genitore straniero mentre l’altro era italiano[ 17 ].

La Corte evidenziando, inoltre, «colpa grave» per tutti i consiglieri comunali e gli amministratori, li ha condannati al risarcimento di tutte le spese sostenute dal Comune nell’attuazione del regolamento incriminato. Secondo i giudici contabili, infatti, non sono stati minimamente presi in considerazione i principi antidiscriminatori alla base del nostro ordinamento, né ha rappresentato causa di giustificazione il fatto che questo regolamento, fosse espressione della volontà politica dei gruppi della maggioranza, poiché qualsiasi atto, anche politico, deve sottostare sempre al rispetto della legge e dei suoi principi fondamentali.

V. LE SENTENZE DELLA CORTE COSTITUZIONALE^

Di notevole impatto, per tutto ciò che la pronuncia rappresenta, la sentenza della Corte, ha di fatto, stabilito «la intrinseca irragionevolezza del complesso normativo […] censurato e la disparità di trattamento che esso determina tra cittadini e stranieri legalmente e non occasionalmente soggiornanti in Italia». La negazione dell’Inps ad un cittadino albanese, in stato di invalidità totale, della richiesta pensione di inabilità perché subordinata ad un limite di reddito fissato dalla legge che consentirebbe, conseguentemente, al cittadino straniere di ottenere il premesso di soggiorno, secondo la Corte «rende ancor più evidente l’intrinseca irragionevolezza del complesso normativo in scrutinio»[ 18 ].

Nella precedente sentenza –la 306/2008– la Corte evidenzia la violazione, sotto un duplice profilo, dell’art. 3 Cost., sicché ritiene di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000 e dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 –quest’ultimo come modificato dall’art. 9, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189, e poi sostituito dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 3 del 2007– nella parte in cui escludono che la pensione di inabilità, di cui all’art. 12 della legge n. 118 del 1971, possa essere attribuita agli stranieri extracomunitari soltanto perché essi non risultano in possesso dei requisiti di reddito già stabiliti per la carta di soggiorno ed ora previsti, per effetto del d.lgs. n. 3 del 2007, per il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo[ 19 ].

Anche la sentenza della stessa Corte, la n. 187/2010 dichiara incostituzionale l’art. 80, comma 19 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno –oggi permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo– il riconoscimento, agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, dell’assegno mensile di invalidità, previsto dall’articolo 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118 che ha convertito in legge il decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5.

La Corte anzitutto ha ritenuto dover accertare se, alla luce della configurazione normativa e della funzione sociale che è chiamato a svolgere nel sistema, l’assegno di invalidità costituisca o meno un rimedio destinato a consentire il concreto soddisfacimento dei «bisogni primari» inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana, che è compito della Repubblica promuovere e salvaguardare; rimedio costituente un diritto fondamentale perché garanzia per la stessa sopravvivenza della persona. In proposito la sentenza ricorda la giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo che ha affermato come, «in uno Stato democratico moderno, molti individui, per tutta o parte della loro vita, non possono assicurare il loro sostentamento che grazie a delle prestazioni di sicurezza o di previdenza sociale». Sicché, «da parte di numerosi ordinamenti giuridici nazionali viene riconosciuto che tali individui sono bisognosi di una certa sicurezza e prevedono, dunque, il versamento automatico di prestazioni, a condizione che siano soddisfatti i presupposti stabiliti per il riconoscimento dei diritti in questione»[ 20 ]. Pertanto, qualora si tratti di provvidenza destinata a far fronte al «sostentamento» della persona, qualsiasi distinzione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con il principio sancito dall’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, avuto riguardo all’interpretazione datane dalla Corte europea.

Rimarca la Corte che l’art. 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118, prevedeva, nel suo testo originario, la corresponsione di un assegno mensile per tredici mensilità «ai mutilati ed invalidi civili di età compresa fra il diciottesimo ed il sessantacinquesimo anno nei cui confronti sia accertata una riduzione della capacità lavorativa, nella misura superiore a due terzi, incollocati al lavoro e per il tempo in cui tale condizione sussiste», con le stesse condizioni e modalità previste per l’assegnazione della pensione di invalidità di cui all’art. 12 della stessa legge. Il secondo comma dello stesso art. 13, prevedeva che l’assegno di invalidità potesse «essere revocato, su segnalazione degli uffici provinciali del lavoro e della massima occupazione, qualora risulti che i beneficiari non accedono a posti di lavoro adatti alle loro condizioni fisiche».

Il medesimo art. 13, sostituito dall’art. 1, comma 35, della legge 24 dicembre 2007, n. 247, stabilisce che «agli invalidi civili di età compresa fra il diciottesimo e il sessantaquattresimo anno nei cui confronti sia accertata una riduzione della capacità lavorativa, nella misura pari o superiore al 74 per cento, che non svolgono attività lavorativa e per il tempo in cui tale condizione sussiste, è concesso, a carico dello Stato ed erogato dall’INPS, un assegno mensile di euro 242,84 per tredici mensilità, con le stesse condizioni e modalità previste per l’assegnazione della pensione di cui all’art. 12».

Il comma 2 del medesimo articolo prevede, inoltre, che il fruitore del beneficio provvede ad autocertificare all’INPS di non svolgere attività lavorativa e l’obbligo di dare tempestiva comunicazione al medesimo Istituto ove tale condizione venga meno.

Dalla disamina operata dalla Corte emerge, dunque, che l’assegno in questione può essere riconosciuto soltanto in favore di soggetti invalidi civili, nei confronti dei quali sia riconosciuta una riduzione della capacità lavorativa di misura elevata; che la provvidenza stessa, in tanto può essere erogata, in quanto il soggetto invalido non presti alcuna attività lavorativa; che l’interessato versi, infine, nelle disagiate condizioni reddituali stabilite dall’art. 12 della stessa legge n. 118 del 1971, per il riconoscimento della pensione di inabilità.

L’erogazione della provvidenza –emerge con estrema chiarezza dalla norma– è destinata certamente non ad integrare un minore reddito dipendente da condizioni soggettive, bensì a garantire al soggetto destinatario un minimo vitale di sostentamento, atto appunto ad assicurarne la sopravvivenza e rientrando, dunque, nel parametro ineludibile di uguaglianza di trattamento tra cittadini e stranieri.

VI. IL DIRITTO SOCIALE DEGLI STRANIERI AD UN ALLOGGIO^

Nonostante in diverse occasioni, la Corte costituzionale, in vero, avesse affermato che è «doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione» e qualifica tale diritto fondamentale in quanto costituisce un «connotato della forma costituzionale di Stato sociale voluto dalla Costituzione», il quale deve «contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana»[ 21 ], non sono mancate, soprattutto a livello di legislazione regionale, chiusure nei confronti del diritto costituzionale all’abitazione per gli stranieri soggiornanti in Italia[ 22 ].

La legislazione regionale, in funzione dell’autonomia amministrativa, in netto contrasto con le norme costituzionali –come abbiamo segnalato nelle note– diversificano il diritto all’alloggio tra residente e non residente, codificando implicitamente una nuova categoria di «esclusi» dal welfare locale; la legiferazione, dunque, sembrerebbe mirata esclusivamente –in una mentalità essenzialmente conservatrice– a favorire i residenti cittadini a discapito degli stranieri che continuano a rimanere gli esclusi nonostante la corposa normativa comunitaria ed internazionale[ 23 ].

La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, all’art. 25, disponendo che «Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà»[ 24 ], sancisce senza dubbio un principio che non può essere in nessun caso derogato, essendo stata recepita ed adottata dall’Italia con Legge 4 agosto 1955, n. 848[ 25 ].

Del resto, anche l’art. 11 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, firmato a New York il 16 dicembre 1966[ 26 ], impegnava gli Stati –rafforzamento di quanto già enunciato solennemente nella Dichiarazione del 1948– a riconoscere «il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la sua famiglia, che includa alimentazione, vestiario, ed alloggio adeguati, nonché al miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita». Gli Stati Parti si impegnavano ad adottare misure idonee ad assicurare l’attuazione di questo diritto, e riconoscevano a tal fine l’importanza essenziale della cooperazione internazionale, basata sul libero consenso.

Collateralmente e a rafforzamento di quanto affermato sia nella Dichiarazione che nel Patto sopra richiamati, interviene la Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989[ 27 ] che impone agli Stati di adottare adeguati provvedimenti per aiutare i genitori o altri che hanno la responsabilità del fanciullo ad attuare il diritto di ogni fanciullo ad un livello di vita sufficiente per consentire il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale e ad offrire, se del caso, un’assistenza materiale e programmi di sostegno, in particolare per quanto riguarda l’alimentazione, il vestiario e l’alloggio.[ 28 ]

Per ultimo, la Carta sociale europea ribadisce ancora una volta il diritto inviolabile alla protezione contro ogni tipo di povertà e di emarginazione e per il cui effettivo esercizio gli Stati aderenti si impegnano «a prendere misure nell’ambito di un approccio globale e coordinato per promuovere l’effettivo accesso in particolare al lavoro, all’abitazione, alla formazione professionale, all’insegnamento, alla cultura, all’assistenza sociale medica delle persone che si trovano o rischiano di trovarsi in situazioni di emarginazione sociale o di povertà, e delle loro famiglie»[ 29 ] ed, in particolare per quanto riguarda l’effettivo esercizio del diritto all’abitazione, impegna le Parti a «prendere misure destinate: 1. a favorire l’accesso ad un’abitazione di livello sufficiente; 2. a prevenire e ridurre lo status di “senza tetto” in vista di eliminarlo gradualmente; 3. a rendere il costo dell’abitazione accessibile alle persone che non dispongono di risorse sufficienti»[ 30 ].

Appare, dunque, pacifico che il requisito della residenza ai fini dell’accesso al beneficio, nello specifico dell’alloggio, rappresenta, de facto, una illecita discriminazione sebbene dissimulata ed a favore dei cittadini che, proprio per lo status rivestito, possono facilmente soddisfare il requisito richiesto dalle norme restrittive, come ebbe modo di segnalare in più occasioni la Corte di giustizia europea[ 31 ].

Bisogna evidenziare, ancora, che la stessa Corte, anche se per altra fattispecie –agevolazioni tariffarie a vantaggio delle persone residenti per l’accesso ai Musei comunali– ha affermato che «il principio di parità di trattamento. (...) vieta non soltanto le discriminazioni palesi basate sulla cittadinanza, ma anche qualsiasi forma di discriminazione dissimulata che, mediante il ricorso ad altri criteri distintivi, produca, in pratica, lo stesso risultato»[ 32 ].

Lo stesso risultato discriminatorio –afferma la Corte– non si verifica in maniera esclusiva per gli stranieri extracomunitari, ma coinvolge anche i cittadini comunitari; non può, infatti, non considerarsi l’ipotesi –certamente non residuale– che i cittadini di altri Stati membri, il più delle volte, non sono cittadini residenti e, conseguentemente, a causa della previsione del requisito della residenza di lungo periodo, si troverebbero esclusi di un diritto inviolabile riconosciuto.

Recentemente, la Suprema corte di Cassazione pronunciandosi su ricorso proposto dall’ Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) contro H. V. R. I. avverso la sentenza n. 1222/2017 della Corte d’appello di Milano che aveva dichiarato il carattere discriminatorio della condotta tenuta dall’Inps nel negare il diritto della ricorrente all’assegno di natalità’ ex art. 11 comma 25, della legge 23 maggio 2014, n. 190 per mancanza del requisito del possesso di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, ha avuto modo di ulteriormente chiarire –facendo anche riferimento alla sent. Corte costituzionale n. 230 del 2015– che, nell’ottica della più sempre integrazione sociale e della prevista equiparazione, per scopi assistenziali, tra cittadini e stranieri extracomunitari, di cui all’art. 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero)– il soggiorno di questi ultimi risulti, oltre che regolare, non episodico né occasionale»[ 33 ].

Con tale pronuncia viene affrontata la questione di manifesta illegittimità dell’operato dell’Inps in palese e netto contrasto col dettato costituzione di cui all’ art. 31 della Costituzione, in forza del quale la Repubblica si fa carico di proteggere la famiglia e, conseguentemente, la maternità e l’infanzia, con misure economiche e tutte le altre provvidenze necessarie per rendere effettivo quanto costituzionalmente sancito.

Il diniego dell’assegno di natalità di cui all’art. 1, comma 125, legge n. 190 del 2014, così come pure tutte le altre provvidenze negate agli extracomunitari non soggiornanti di lungo periodo, pare integrare, la discriminazione legata alla nazionalità, anche se espressamente vietata dall’art.12, lettera e), della direttiva 2011/98 e che prevede, espressamente, l’equiparazione degli extracomunitari ai cittadini degli Stati membri in cui soggiornano nei settori della sicurezza sociale, meglio definiti dal Regolamento CE n. 883/2004[ 34 ].

VII. IL DIRITTO ALLA SALUTE NEGATO^

La Corte costituzionale nella sent. n. 103/1977 ricorda che alla luce dell’art. 32 Cost. che prevede il diritto alla salute quale diritto fondamentale della persona e di interesse per la collettività corrisponde ad un diritto pieno e incondizionato della persona e perciò la cittadinanza non rileva ai fini della posizione di utente dei servizi sanitari.

Il diritto alla salute, dunque, con la sua qualificazione costituzionale e fondamentale comporta precise conseguenze giuridiche, quali l’inalienabilità, l’intrasmissibilità e l’irrinunciabilità[ 35 ], oltre che l’indisponibilità che comporta l’attribuzione della titolarità sia ai cittadini che agli stranieri, essendo riconducibili a diritti strettamente inerenti alla stessa persona, in quanto tale.

Riconoscere la qualificazione di diritto fondamentale alla salute –per altro garantita anche dall’art. 12 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali[ 36 ]– significa riconoscere, tout court, il diritto alla salute, comunque, di chi è presente nel territorio dello Stato italiano, a prescindere dallo status rivestito che, molto spesso viene vanificato dalla carenza di strutture sanitarie idonee e dalla limitatezza delle risorse disponibili. Né si può essere completamente d’accordo con l’affermazione che il diritto ai trattamenti sanitari debba essere condizionato da esigenze di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, atteso che si tratta di un diritto che ha insito una valenza erga omnes e, pertanto, meritevole di protezione dello Stato e delle Regioni che sono obbligati, nei limiti delle singole competenze, a predisporre quanto necessario per attuare una efficace politica di prevenzione e protezione della salute che non può essere né compressa né sacrificata da ragioni prettamente economiche[ 37 ].

La propensione al risparmio a tutti i costi, oltre ad essere anacronistico rispetto alla primaria esigenza della pubblica salute, genera dubbi sui sottostanti interessi che potrebbero avere risvolti certamente interessanti per comprendere le logiche che hanno spinto la politica a «sacrificare»[ 38 ] il settore primario della sanità a favore di altri capitoli di bilancio e cha hanno evidenziato le criticità della mancanza di strutture e mezzi idonei ad affrontare emergenze, come è avvenuto nel caso della pandemia da Covid-19[ 39 ].

Non può non far riflettere, quanto già emergeva dal focus curato da Stefania Gabriele per l’Ufficio parlamentare del bilancio del 2019 e che dimostra –qualora ve ne fosse bisogno– che importanti tagli finanziari programmati avrebbero portato, tra l’altro, a una forte riduzione dei posti letto, in particolare quelli disponibili per terapia intensiva, con le conseguenze che sono state visibili a tutti: «Nel corso degli anni, inoltre, le manovre di finanza pubblica hanno imposto forti ridimensionamenti dei finanziamenti rispetto a quanto precedentemente concordato in sede di Conferenza Stato Regioni, obbligando a contenere la spesa attraverso le misure individuate centralmente oppure con interventi alternativi. Per il futuro, le previsioni di spesa sanitaria a legislazione vigente contenute nella NADEF 2019 indicano una ulteriore lieve riduzione in rapporto al PIL, dal 6,6 per cento del 2019 al 6,5 nel 2022»[ 40 ].

In quest’ottica si è fatta l’insensata scelta della riduzione del personale sanitario che ha comportato «una riduzione in valore assoluto di quasi 2 miliardi di euro tra il 2010 e il 2018, nonostante un recupero parziale nell’ultimo anno intervenuto grazie alla ripresa della contrattazione. Alla riduzione del personale degli enti sanitari pubblici si è accompagnato a sua volta una riduzione degli investimenti in conto capitale e il ridimensionamento delle strutture ospedaliere esistenti, che ha rappresentato un obiettivo esplicito delle politiche sanitarie (blocco dei turnover, chiusura unità ospedaliere, riduzione dei posti letto, accorpamento delle Asl) volte a spostare le cure su strutture meno care e più capaci di essere vicine ai cittadini»[ 41 ].

Le scarse lungimiranze nelle scelte politiche in tema sociosanitario si sono ulteriormente evidenziate nel periodo critico della pandemia che ha sconfessato quanto propugnato da una politica aziendale applicata anche ai settori più delicati e sensibili, quali appunto la sanità, non comprendendo però che scarsi investimenti rivolti alla salute della popolazione possono generare indirettamente, più alti costi sociali ed economici, attraverso un abbassamento della qualità della vita di tutti.

Tali miopi politiche di contenimento di spesa, cozzano anche con l’art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che riconosce internazionalmente il diritto alla salute, quale diritto inviolabile della persona e, pertanto, intrinsecamente, non soggetto ad alcuna limitazione, ancorché di natura economica, come ha peraltro, in successive sentenze[ 42 ] la Corte costituzionale confermato riconoscendo l’esigenza di una tutela ampia del diritto alla salute, che si estende molto oltre il nucleo essenziale e irriducibile e deputata anche a coprire oltre le essenzialità, anche le «provvidenze» indirette, come la previsione di tariffe agevolate per gli invalidi[ 43 ].

VIII. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE^

Da quanto abbiamo affrontato si evince chiaramente che l’Italia è in forte ritardo su molti fronti e, in particolare, sul piano dello sviluppo dei servizi di cura, proprio per la mancanza di una vera strategia nazionale di sviluppo del welfare indirizzata essenzialmente all’incremento occupazionale collegato anche alla tutela dei bisogni sociali.

I settori socio-assistenziale e socio-sanitario appaiono sottodimensionati rispetto al reale fabbisogno, proprio per la politica di risparmio attuata a partire dal 2014 con la spending review che, se ha ridotto notevolmente sprechi in alcuni settori, ha prodotto numerosi danni, difficilmente riparabili nel breve periodo, in settori altamente sensibili. In particolare, la mera politica del risparmio a tutti costi ha generato a catena una serie di problemi che hanno prodotto riduzione di personale con conseguente progressiva fuga dal sistema pubblico a quello privato e la massiccia fuga di medici italiani nei Paesi esteri che mettono a disposizione mezzi e strutture sicuramente più efficienti rispetto a quelle che offre l’Italia.

L’errore di concentrare le cure ospedaliere in grandi strutture e la contestuale riduzione delle strutture minori che, secondo gli standard non garantivano adeguati risultati, anziché la loro riconversione e miglioramento, ha lasciato la popolazione senza protezioni adeguate, come evidenziato dalla Corte dei conti[ 44 ].

Le carenze della sanità pubblica si sono in effetti riversate sulle famiglie che hanno potuto contare sulle proprie risorse economiche per garantirsi un’assistenza spesso negata dal sistema per la lungaggine e la farraginosità delle prenotazioni che vanificano una immediata e tempestiva cura. Carenze, messe ulteriormente in luce dalla pandemia da coronavirus che per «l’insufficienza delle risorse destinate al territorio ha reso più tardivo e ha fatto trovare disarmato il primo fronte che doveva potersi opporre al dilagare della malattia e che si è trovato esso stesso coinvolto nelle difficoltà della popolazione, pagando un prezzo in termini di vite molto alto»[ 45 ].

A questo si aggiunga la contestuale riduzione di posti letto di ricovero che, pur riconoscendolo fenomeno comune ad altri Paesi, appare certamente critica la flessione registrata nei primi mesi del 2000, dei posti a 3,2 per mille abitanti, contro i sei posti di Francia e gli 8 posti letto di Germania.

Altra sostanziale debolezza della rete sanitaria e assistenziale in Italia, risulta essere la copertura delle esigenze di assistenza domiciliare, specialmente quella anziana, spesso in condizione di non autosufficienza e che risulta parzialmente risolta con l’autofinanziamento delle famiglie che si avvalgono di assistenti e badanti extracomunitari che, fortunatamente, sopperiscono alle esigenze inascoltate dalla parte più fragile della popolazione[ 46 ].

Ovviamente, la contingenza del periodo particolare vissuta ci induce ad ipotizzare, con ragionevole certezza, che le restrizioni imposte dai vari lockdown sui vari aspetti della vita sociale delle famiglie abbiano penalizzato fortemente i nuclei stranieri, anche per via di una situazione lavorativa –lavoratori irregolari e stagionali, badanti e assistenti familiari, venditori ambulanti– già notoriamente più debole e meno tutelata di quella degli italiani e dei cittadini comunitari.

La Caritas, non a caso, segnala nel suo secondo monitoraggio sui bisogni e servizi per Covid-19, effettuato dal 3 al 23 giugno 2020, che quasi 450.000 persone sono state accompagnate e sostenute tra marzo e maggio, di cui il 61,6% italiane. Di queste il 34% sono “nuovi poveri”, cioè persone che per la prima volta si sono rivolte alla Caritas. 92.000 famiglie in difficoltà hanno avuto accesso a fondi diocesani, oltre 3.000 famiglie hanno usufruito di attività di supporto per la didattica a distanza e lo smart working, 537 piccole imprese hanno ricevuto un sostegno.

Né è venuta in soccorso la normativa d’emergenza prevista da decreto Cura Italia[ 47 ] che ha istituito il «Bonus spesa», poi rifinanziato dal Decreto Rilancio[ 48 ], erogato dai Comuni che hanno inserito paletti contenitivi, escludendo chi non possedeva requisiti di cittadinanza, residenza anagrafica e permesso di soggiorno: si è trattato praticamente dell’esclusione di molti cittadini stranieri. Cittadini stranieri che, secondo i dati elaborati dall’Osservatorio Inps, rappresentano una percentuale minima di inclusione all’interno della misura c.d. «Reddito di cittadinanza»[ 49 ] e che rappresenta solamente l’8% del totale dei nuclei familiari beneficiari.

Quanto abbiamo tentato di tracciare, ci induce a riflettere seriamente sull’incontestabile assunto che la condizione di povertà degli stranieri in Italia non sia semplicemente correlato all’emergenza pandemica che ha certamente acuito il fenomeno; è un fenomeno, a giudizio di chi scrive, che nonostante i proclami e le esternazioni mediatiche non si è voluto affrontare con decisione e mezzi finanziari adeguati.

Ciò che occorre, dunque, per evitare che l’ulteriore emergenza, determinata dal coronavirus, amplifichi la platea dei nuovi poveri e, specialmente dei nuovi poveri stranieri extracomunitari, è intervenire con urgenza e senza tentennamento alcuno, con riforme che incidano strutturalmente sull’attuale sistema di protezione sociale che attualmente esclude una parte della popolazione e, nello specifico, la popolazione straniera povera.

Bibliografia^

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Corvaja, F.: “L’accesso dello straniero extracomunitario all’edilizia residenziale pubblica”, Diritto, immigrazione e cittadinanza, núm. 3, 2009.

Cuniberti, M.: “L’illegittimità costituzionale dell’esclusione dello straniero dalle prestazioni sociali previste dalla legislazione regionale”, Le Regioni, núm. 2-3, 2006.

Loria, S.: “Diritti Umani e Fondamentali”, e-Revista Internacional de la Protección Social, núm. 2, 2019.

Zoli, G.: “L’immigrato copy editor”, Internazionale, 2 ottobre 2012.

Notas^

[ 1 ] Questo è stato uno dei cavalli di battaglia del movimento populista in Italia; il leader della Lega, Sen. Matteo Salvini –nel periodo in cui era Ministro dell’Interno– nella trasmissione televisiva su 7 Gold “Aria pulita” ha enfaticamente dichiarato “Siamo arrivati a circa un miliardo di euro di pensioni sociali erogate agli immigrati che sono arrivati qua coi ricongiungimenti familiari, sopra i 65 anni, senza aver mai pagato una lira di contributo”. Tale affermazione risulta palesemente falsa perché i requisiti per accedere alla prestazione della pensione sociale sono: un’età minima di 67 anni e un reddito inferiore a determinate soglie fissate ogni anno dalla legge. Bisogna dimostrare, inoltre, una residenza effettiva, stabile e continuativa per almeno dieci anni nel territorio italiano e chi trascorre più di 30 giorni all’anno all’estero perde il diritto alla prestazione. E certamente la cifra indicata dall’ex Ministro appare quantomeno esagerata.

[ 2 ] Spesso il legislatore usa l’aggettivo “clandestino” per identificare i soggetti che attraversano i confini di un Paese non passando attraverso le frontiere ufficiali; sarebbe comunque più giusto definirli con l’espressione “immigrati senza regolari documenti amministrativi” anziché appellarli in maniera spregevole “clandestini” violando così, fin dal primo accesso nel Paese di arrivo, i diritti umani e fondamentali. Anche perché “illegali sono le azioni, non le persone”, come giustamente asserisce Zoli, G.: “L’immigrato copy editor”, Internazionale, 2 ottobre 2012, https://www.internazionale.it/opinione/giulia-zoli/2012/10/02/limmigrato-copy-editor.

[ 3 ] Corte cost. sent. 18 luglio 1986, n. 199: «In particolare l’art. 2 Cost., riconoscendo e garantendo diritti inviolabili dell’uomo, è norma di tutela non solo del cittadino ma anche dello straniero».

[ 4 ] Corte cost. sent. 19-26 giugno 1969, n. 104.

[ 5 ] Corte cost. sent. n. 120 del 1962.

[ 6 ] «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana».

[ 7 ] Tutti i professionisti che per esercitare la propria professione devono necessariamente iscriversi a un Albo hanno l’obbligo di iscrizione anche alla propria Cassa Pensionistica di categoria, ente autonomo che si occupa della sfera previdenziale e assistenziale dei propri iscritti. Benché privatizzate, le Casse perseguono dunque una finalità di interesse pubblico e costituiscono un tassello importante del sistema previdenziale italiano su cui dunque lo Stato vigila in ogni caso.

[ 8 ] «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

[ 9 ] La sentenza n. 44 del 2020 della Corte Cost. in materia di requisiti di residenza qualificata, riafferma in maniera netta la violazione dell’art. 3 Cost. per irragionevolezza, per la conseguente disparità di trattamento a danno di chi non è in possesso dei requisisti di residenza qualificata e per violazione del principio di eguaglianza sostanziale. Precedentemente, la stessa Corte con sent. 18 luglio 1986, n. 199 ha affermato che il principio di eguaglianza previsto dall’art. 3 Cost. non deve essere considerato in modo isolato, ma deve essere interpretato sia in connessione con l’art. 2 Cost., che prevedendo il riconoscimento e la tutela dei «diritti inviolabili dell’uomo» non distingue tra cittadini e stranieri, ma garantisce i diritti fondamentali anche riguardo allo straniero.

[ 10 ] Se un assicurato non ha diritto alla pensione con i soli contributi nazionali, ma vanta contributi maturati all’estero, può «totalizzare», ovvero sommare ai contributi italiani quelli maturati in un altro Stato convenzionato, ai fini del diritto alla pensione. Per i regolamenti comunitari, il periodo minimo è di 52 settimane, mentre per le convenzioni bilaterali è stabilito in modo diverso dai singoli Accordi. Purtroppo, solo alcune convenzioni bilaterali ammettono la totalizzazione dei contributi con Paesi terzi, a condizione che risultino legati, a loro volta, da convenzioni di sicurezza sociale sia all’Italia sia all’altro Stato contraente. i contributi versati in un altro Stato membro dell’UE possono essere cumulati con quelli versati in Italia. Il quadro completo degli accordi bilaterali di sicurezza sociale attualmente in vigore, oltre naturalmente ai Regolamenti CE sulla sicurezza sociale riguardano i seguenti Stati: Argentina (in vigore dal 1° gennaio 1984); Australia (in vigore dal 1° ottobre 2000); Brasile (in vigore dal 5 agosto 1977); Canada (in vigore dal 1° gennaio 1979); Capo Verde (in vigore dal 1° novembre 1983); Israele (in vigore dal 6 febbraio 2014); Jersey (in vigore dal 1° maggio 1958); Principato di Monaco (in vigore dal 1° ottobre 1985); Repubbliche dell’Ex Jugoslavia Bosnia-Erzegovina, Macedonia-FYROM, Serbia, Montenegro, Kosovo (in vigore dal 1° gennaio 1961); Repubblica di San Marino (in vigore dal 1° gennaio 1961); Stati niti (in vigore dal 1° gennaio 1961; accordo aggiuntivo del 1° gennaio 1986); Tunisia (in vigore dal 1° giugno 1987); Uruguay (in vigore dal 1° giugno 1985); Vaticano – Santa Sede (in vigore dal 1° gennaio 2004); Venezuela (in vigore dal 1° novembre 1991).

[ 11 ] Di Pasquale et al, 2017, Filomena, 2016. Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione: Dal X Rapporto annuale “Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia”. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Roma. 2020, addirittura i pensionati extracomunitari risultano in numero inferiore rispetto alla precedente rilevazione: «Le pensioni IVS16 erogate dall’INPS a cittadini extracomunitari alla fine del 2019 sono 65.926, pari allo 0,39% del totale delle pensioni INPS dello stesso tipo (16.840.762); di esse 22.696 (34,4%) vengono erogate a uomini e 43.230 (65,6%) a donne. Tra il 2017 e 2018 il numero di pensioni erogate a extracomunitari ha avuto un incremento del 12,7%; tra il 2018 e il 2019 del 12,3% e complessivamente, nel triennio, del 26,6%. L’ 86,0% delle pensioni erogate a extracomunitari è destinato a beneficiari residenti nel territorio italiano. Si tratta di 56.710 pensioni, delle quali il 65,6% sono erogate a donne».

[ 12 ] Art. 3, lett. B) direttiva UE 2011/98 del 13 dicembre 2011.

[ 13 ] Si veda Tribunale di Bergamo, ordinanza del 14.4.2016.

[ 14 ] Corte Cost. sent. 230/15 e sent. n. 40/13. La Corte, tra l’altro, auspica che «il legislatore, tenendo conto dell’elevato numero di pronunce caducatorie adottate da questa Corte a proposito della disposizione ora nuovamente censurata, provveda ad una organica ricognizione e revisione della disciplina, ad evitare, tra l’altro, che il ripetersi di interventi necessariamente frammentari, e condizionati dalla natura stessa del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, possa avere riverberi negativi sul piano della tutela dell’eguaglianza sostanziale». Con tale sentenza, la Corte sancisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, L. 388/00 nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti della pensione di cui all’art. 8 L. 66/62 (pensione del cd cieco civile ventesemista) e dell’indennità di cui all’art. 3, comma 1, L. 508/88 (indennità di accompagnamento del cd cieco civile ventesemista).

[ 15 ] Corte Cost. n.44 del 2020.

[ 16 ] Si rimanda Loria, S.: “Diritti Umani e Fondamentali”, E-Revista Internacional de la Protección Social, núm. 2, 2019, pp. 179-191.

[ 17 ] La Corte ha statuito: «Sussiste la responsabilità erariale a carico dei componenti della Giunta Comunale e del Consiglio Comunale che hanno deliberato l’adozione di provvedimenti palesemente discriminatori (nella specie un bonus bebè riservato ai nuovi nati con entrambi i genitori di nazionalità italiana) e hanno poi resistito nei giudizi promossi da associazioni contro detta delibera; sussiste infatti il requisito della colpa grave, posto che il comportamento tenuto dagli amministratori è particolarmente inescusabile alla luce dell’inequivoca normativa di riferimento e della costante giurisprudenza della Corte Costituzionale.

[ 18 ] La Corte, tra l’altro, così motiva: «Mentre, infatti, l’indennità di accompagnamento è concessa per il solo fatto della minorazione, senza che le condizioni reddituali vengano in alcun modo in rilievo, la pensione di inabilità è preclusa dalla titolarità di un reddito superiore ad una misura fissata dalla legge. La subordinazione dell’attribuzione di tale prestazione al possesso, da parte dello straniero, di un titolo di soggiorno il cui rilascio presuppone il godimento di un reddito, rende ancor più evidente l’intrinseca irragionevolezza del complesso normativo in scrutinio. Si riscontra, pertanto, la violazione, sotto un duplice profilo, dell’art. 3 Cost., sicché deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000 e dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 –quest’ultimo come modificato dall’art. 9, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189, e poi sostituito dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 3 del 2007– nella parte in cui escludono che la pensione di inabilità, di cui all’art. 12 della legge n. 118 del 1971, possa essere attribuita agli stranieri extracomunitari soltanto perché essi non risultano in possesso dei requisiti di reddito già stabiliti per la carta di soggiorno ed ora previsti, per effetto del d.lgs. n. 3 del 2007, per il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo».

[ 19 ] Nelle Considerazioni finali del Presidente Giovanni Maria Flick sulla giurisprudenza costituzionale del 2008 in occasione dell’Udienza straordinaria del 28 gennaio 2009, Roma, Palazzo della Consulta (in www.cortecostituzionale.it), 9, si sottolinea come nella sentenza n. 306 la Corte abbia «puntualizzato che l’irragionevolezza della norma censurata non si rifletteva soltanto sul principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione, ma anche sugli artt. 32 e 38 della medesima Carta, nonché sul principio sancito dall’art. 2, in quanto il diritto alla salute è diritto fondamentale della persona».

[ 20 ] Si consultino: Stec ed altri contro Regno Unito, decisione sulla ricevibilità del 6 luglio 2005; Koua Poirrez contro Francia, sentenza del 30 settembre 2003; Gaygusuz contro Austria, sentenza del 16 settembre 1996; Salesi contro Italia, sentenza del 26 febbraio 1993.

[ 21 ] Sent. n. 404 del 24 marzo 1988. La stessa Corte, precedentemente con Sentenza n. 217 del 1988, affermava che «il diritto all’abitazione rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione… In breve, creare le condizioni minime di uno Stato sociale, concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, quale quello all’abitazione, contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana, sono compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso». Altra sentenza della stessa Corte –Sent. n. 49 del 1987– aveva già riconosciuto «indubbiamente doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione».

[ 22 ] Si veda, ad esempio non esaustivo, l’art. 4 della legge regionale 13/2017 della Regione Liguria (Norme per l’assegnazione e la gestione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica e modifiche alla legge regionale 12 marzo 1998 e alla legge regionale 3 dicembre 2007, n. 38) che prevedeva per gli stranieri extracomunitari 10 anni di residenza consecutiva ai fini della richiesta di case popolari a differenza dei cittadini comunitari e che di fatto rappresentava una norma “anti straniero” o meglio, una chiara e palese discriminazione in violazione della normativa comunitaria ed internazionale. Legge prontamente, comunque, bocciata dalla Corte costituzionale con la recentissima sentenza n. 106/2018 depositata il 24 maggio 2018. Nonostante tale pronuncia, la spinta discriminatoria nei confronti degli stranieri continua imperterrita come dimostra la norma approvata dalla Regione Abruzzo nel luglio 2018 che, modificando la precedente legge sull’assegnazione degli alloggi popolari, ha previsto tra i requisiti per partecipare al bando di partecipazione all’assegnazione degli alloggi popolari la cittadinanza italiana, ovvero per gli stranieri la residenza per almeno dieci anni consecutivi nel territorio nazionale di cui almeno cinque nel bacino di utenza nel Comune in cui intende accedere all’alloggio. Tale modifica legislativa che contrata nettamente con la sentenza della Suprema Corte n. 168 del 2014 messa in ordine alla legge della Regione Valle D’Aosta che in tale ambito aveva affermato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 1, lettera b), della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 13 febbraio 2013, n. 3 (Disposizioni in materia di politiche abitative), nella parte in cui annovera, fra i requisiti di accesso all’edilizia residenziale pubblica, quello della “residenza nella Regione da almeno otto anni, maturati anche non consecutivamente”».

[ 23 ] Si osserva, inoltre, che gli artt. 4 e 11 della direttiva 2003/109/CE, del Consiglio, del 25 novembre 2003 relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, recepita con il decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3, il cui art. 1 ha sostituito l’art. 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, prevedono che i soggiornanti di lungo periodo, ovvero gli extracomunitari residenti per almeno cinque anni, siano equiparati ai cittadini dello Stato membro in cui si trovano ai fini del godimento dei servizi e prestazioni sociali, tra i quali rientra l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, come testualmente conferma la lettera f) del suo art. 11, con il riferirsi alla «procedura per l’ottenimento di un alloggio». La Regione Liguria, così come precedentemente aveva legiferato la Lombardia (Legge n. 16/2016) hanno ritenuto discriminare gli extracomunitari all’accesso dell’alloggio popolare con l’introduzione di punteggi specifici riferiti allá durata della residenza sul territorio regionale a prescindere dallo svantaggio familiare soggettivo. Tali norme si pongono in netto contrasto con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che all’art. 25, comma 1, dispone che «Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione». Sui dubbi sulla costituzionalità delle discipline regionali e sulla ragionevolezza dei trattamenti differenziati e divieto di discriminazione, si consulti Corvaja, F.: “L’accesso dello straniero extracomunitario all’edilizia residenziale pubblica”, Diritto, immigrazione e cittadinanza, núm. 3, 2009, pp. 1000-1024. Si veda, inoltre, Cuniberti, M.: “L’illegittimità costituzionale dell’esclusione dello straniero dalle prestazioni sociali previste dalla legislazione regionale”, Le Regioni, núm. 2-3, 2006, pp. 510-529 in cui si esamina la legittimità costituzionale proposta in via principale nei confronti dell’art. 34 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 8 aprile 2004, n. 1.

[ 24 ] Il 10 dicembre 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Dopo questa solenne deliberazione, l’Assemblea delle Nazioni Unite diede istruzioni al Segretario Generale di provvedere a diffondere ampiamente questa Dichiarazione e, a tal fine, di pubblicarne e distribuirne il testo non soltanto nelle cinque lingue ufficiali dell’Organizzazione internazionale, ma anche in quante altre lingue fosse possibile usando ogni mezzo a sua disposizione.

[ 25 ] Il principio è stato ribadito dalla Corte Cost., sent. 20 dicembre 1989 n. 559.

[ 26 ] Il Patto è stato recepito e ratificato dalla legge 25 ottobre 1977, n. 881.

[ 27 ] La convenzione è stata ratificata e resa esecutiva a seguito della legge 27 maggio 1991, n. 176.

[ 28 ] È opportuno richiamare quanto precedentemente era stato previsto dall’art. 5 della Convenzione internazionale per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, firmata a New York il 21 dicembre 1965 e ratificata dall’Italia con legge 13 ottobre 1975, n. 654; si richiama, inoltre, l’attenzione su quanto sancito dall’art. 14 della Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne firmata a New York il 18 settembre 1979 (ratificata e resa esecutiva a seguito della legge 14 marzo 1985, n. 132).

[ 29 ] Art. 30, lett. a) Carta sociale europea riveduta, promossa dal Consiglio d’Europa, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva in virtù della legge 9 febbraio 1999, n. 30.

[ 30 ] Art. 31, Carta sociale europea riveduta.

[ 31 ] Si vedano, in particolare, le sent. Meints, 27.11.1997; Meussen, 8.06.1999; Commissione c. Lussemburgo, 20.06.2002.

[ 32 ] Corte di giustizia dell’Unione europea sentenza 16 gennaio 2003 n. C-388/01, § 13 e 14.

[ 33 ] Par. 30, N. 188 Ordinanza (Atto di promovimento) Suprema Corte di Cassazione 17 giugno 2019.

[ 34 ] La Corte di giustizia (21 giugno 2017 C-4491/2016) ha avuto modo di precisare che «[...] la distinzione fra prestazioni escluse dall’ambito di applicazione del regolamento n. 883/2004 e prestazioni che vi rientrano è basata essenzialmente sugli elementi costitutivi di ciascuna prestazione, in particolare sulle sue finalità e sui presupposti per la sua attribuzione, e non sul fatto che essa sia o no qualificata come prestazione di sicurezza sociale da una normativa nazionale (v., in tal senso, in particolare, sentenze del 16 luglio 1992, Hughes, C- 78/91, EU:C:1992:331, punto 14; del 20 gennaio 2005, Noteboom, C- 101/04, EU:C:2005:51, punto 24, e del 24 ottobre 2013, Lachheb, C- 177/12, EU:C:2013:689, punto 28). Una prestazione può essere considerata come una prestazione di sicurezza sociale qualora sia attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita per legge, e si riferisca a uno dei rischi espressamente elencati nell’art. 3, paragrafo 1, del regolamento n. 883/2004 (v. in tal senso, in particolare, sentenze del 16 luglio 1992, Hughes, C- 78/91, EU:C:1992:331, punto 15; del 15 marzo 2001, Offermanns, C-85/99, EU:C:2001:166, punto 28, nonché del 19 settembre 2013, Hliddal e Bornand, C-216/12 e C-217/12, EU:C:2013:568, punto 48)». Inoltre, la stessa sentenza ha affermato che «[...] l’espressione «compensare i carichi familiari» deve essere interpretata nel senso che essa fa riferimento, in particolare, a un contributo pubblico al bilancio familiare, destinato ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli (v., in tal senso, sentenza del 19 settembre 2013, Hliddal e Bornand, C- 216/12 e C-217/12, EU:C:2013:568, punto 55 e giurisprudenza ivi citata)».

[ 35 ] Baldassarre, A.: “Diritti sociali”, in Enciclopedia Treccani Giuridica, vol. XI, Istituto della Enciclopedia Italiana Roma, 1992.

[ 36 ] Adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con Risoluzione 2200A (XXI) del 16 dicembre 1966. Entrata in vigore internazionale: 3 gennaio 1976.

[ 37 ] Emblematico, quanto scritto da Giovanna Borelli –https://altreconomia.it/servizio-sanitario-nazionale-finanziamento/– che secondo i dati riportati dal report dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, «il personale del SSN è calato in modo continuo a partire dal 2010, registrando una diminuzione del 6,2%. I dipendenti a tempo indeterminato nel 2017 risultavano 42.800 in meno rispetto al 2008, riduzione che si è concentrata soprattutto nelle regioni in piano di rientro (36.700 persone in meno). Il personale non “stabile”, che comprende i direttori generali e il personale a contratto, è diminuito del 35%. Anche i servizi ospedalieri sono stati ridimensionati con l’obiettivo di spostare le cure su strutture meno costose e più vicine ai cittadini. In Italia il numero di posti letto (per 1.000 abitanti) negli ospedali è sceso da 3,9 nel 2007 a 3,2 nel 2017, contro una media europea che è diminuita da 5,7 a 5».

[ 38 ] In base ai dati dell’Istituto nazionale di Statistica (ISTAT), in Italia la spesa sanitaria pubblica ha fatto registrare tra il 2000 e il 2008 un aumento di circa il 3%, superiore all’aumento del PIL. Dal 2009 al 2017, il tasso di variazione medio anno rispetto al PIL è gradualmente sceso attestandosi intorno allo 0,1% e facendo registrare una sostanziale stabilità della spesa sanitaria pubblica corrente dovuta anche a politiche di contenimento, con un peso sul PIL costante al 6,8% tra il 2017 ed il 2018. In termini di spesa sanitaria complessiva per l’Italia (componente pubblica e privata), i dati a consuntivo forniti dall’OCSE relativi al 2018, indicano un’incidenza sul PIL pari all’8,8 per cento, inferiore alla media UE28 (oltre il 9,5%) e a quella dei principali Paesi europei, tra cui la Francia e la Germania, che si attestano ben oltre l’11 per cento).

[ 39 ] Paolo Russo, su “La Stampa” del 5 marzo 2020 evidenziava la drammaticità della situazione pandemica, in ordine alla disponibilità di posti letto in terapia intensiva, rispetto alla pressante richiesta di cure di terapia intensiva: «La situazione l’ha fotografata l’Anaao, il principale sindacato dei medici ospedalieri. I posti letto di rianimazione nelle tre regioni più esposte, cioè Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, sono in tutto 1.800. Normalmente il 40% di questi resta vuoto per fronteggiare eventuali emergenze o maggiori flussi di pazienti. In tempi di coronavirus il loro tasso di utilizzo è salito al 95%: detto diversamente solo 5 posti su 100 sono in questo momento liberi. E i malati gravi che hanno bisogno di macchine per respirare aumentano in proporzione. Erano 229 martedì e sono saliti a 295 solo 24 ore dopo. Con questi numeri secondo l’Anaao i posti in rianimazione sono già in esaurimento in Lombardia, lo saranno tra 5 giorni in Veneto ed entro una settimana in Emilia». In effetti, i mancati investimenti per il rafforzamento delle misure preventive per fronteggiare eventuali future esigenze, sono diventate abbastanza drammatiche, come evidenzia l’Organizzazione Mondiale della Sanità a proposito del nostro Paese che ha dimezzato i posti letto per i casi acuti e la terapia intensiva, passati da 575 ogni 100 mila abitanti ai 275 attuali. Un taglio del 51% operato progressivamente dal 1997 al 2015, che ha portato l’Italia in fondo alla classifica europea.

[ 41 ] Mazzone, E.: “Rivedere l’impianto del Servizio sanitario nazionale imparando dal Covid-19”, Istituto per la Competitività, 17 aprile 2020, disponibile in https://www.i-com.it/2020/04/17/servizio-sanitario-nazionale/.

[ 42 ] Si rimanda, in particolare, alla Sent. 31/2017 con la quale la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 574, lettera b), della legge n. 208 del 2015, nella parte in cui impone alle Province autonome di Trento e di Bolzano di adottare misure alternative al fine di garantire, in ogni caso, l’invarianza dell’effetto finanziario. Occorre altresì ricordare che la stessa Corte ha già altre volte affermato, come nella sentenza n. 75 del 2016, che la legge dello Stato non può imporre vincoli alla spesa sanitaria delle Province autonome di Trento e Bolzano, considerato che lo Stato non concorre in alcun modo al finanziamento del servizio sanitario provinciale, il quale si sostenta totalmente con entrate provinciali.

[ 43 ] Con Sent. 432/2015, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, della legge della Regione Lombardia 12 gennaio 2002, n. 1 (Interventi per lo sviluppo del trasporto pubblico regionale e locale), come modificato dall’art. 5, comma 7, della legge della Regione Lombardia 9 dicembre 2003, n. 25 (Interventi in materia di trasporto pubblico locale e di viabilità), nella parte in cui non include gli stranieri residenti nella Regione Lombardia fra gli aventi il diritto alla circolazione gratuita sui servizi di trasporto pubblico di linea riconosciuto alle persone totalmente invalide per cause civili.

[ 44 ] Corte dei Conti, Sezioni riunite in sede di controllo, La sanità e il nuovo patto per la salute, in Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica, approvato nell’adunanza delle Sezioni riunite in sede di controllo del 15 maggio 2020. p. 286.

[ 45 ] Ibidem, p. 286.

[ 46 ] Secondo i dati elaborati dall’Istat, al 1° gennaio 2020, il 29,60% della popolazione italiana aveva un’età compresa tra 60 e 99 anni; ciò significa che quasi un 1/3 della popolazione complessiva italiana è formata da anziani e, dunque, da potenziali soggetti bisognosi di assistenza domiciliare.

[ 47 ] Decreto-legge 17 marzo 2020 n. 18.

[ 48 ] Decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34.

[ 49 ] Il Reddito di Cittadinanza (RdC), introdotto con decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 come misura di contrasto alla povertà, è un sostegno economico finalizzato al reinserimento nel mondo del lavoro e all’inclusione sociale. Qualora tutti i componenti del nucleo familiare abbiano età pari o superiore a 67 anni, oppure se nel nucleo familiare sono presenti anche persone di età inferiore a 67 anni in condizione di disabilità grave o non autosufficienza, assume la denominazione di Pensione di Cittadinanza. Il Reddito di Cittadinanza viene erogato ai nuclei familiari che, al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, risultano in possesso di determinati requisiti economici, di cittadinanza e di residenza escludendo, dunque, chi non può far valere un permesso di soggiorno di lunga durata.