Trabajo, Persona, Derecho, Mercado 5 (2022) 29-41
https://dx.doi.org/10.12795/TPDM.2022.i5.02

Le nuove dimensioni della diseguaglianza e le risposte del diritto antidiscriminatorio

Las nuevas dimensiones de la desigualdad y las respuestas del derecho antidiscriminatorio

Marzia Barbera

Dipartimento di Giurisprudenza - Università di Brescia

marzia.barbera@unibs.it

Abstract: L’articolo descrive il che modo in diritto antidiscriminatorio risponde alle nuove diseguaglianze attraverso l’adattamento delle sue categorie tradizionali e l’uso di nuove categorie, prevalentemente a opera della giurisprudenza.

Keywords: Nuove diseguaglianze; discriminazioni tipiche e atipiche; discriminazioni intersezionali; new inequalities; typical and atypical discriminations; intersectional discriminations.

Resumen: El artículo describe cómo el derecho antidiscriminatorio responde a las nuevas desigualdades mediante la adaptación de sus categorías tradicionales y el uso de nuevas categorías, principalmente por parte de la jurisprudencia.

Palabras Claves: Nuevas desigualdades; discriminación típica y atípica; discriminación interseccional; nuevas desigualdades; discriminaciones típicas y atípicas; discriminaciones interseccionales.

Sommario:

1. La selettività della tutela antidiscriminatoria e i tentativi di superarla. 2. L’adattamento della nozione di discriminazione. 3. Le diverse ragioni delle scelte della giurisprudenza. 4. Le discriminazioni intersezionali

Sumario: 1. La selectividad de la protección antidiscriminatoria y los intentos de superarla. 2. La adecuación de la noción de discriminación. 3. Las diferentes razones de las opciones de jurisprudencia. 4. Discriminación interseccional.

1. La selettività della tutela antidiscriminatoria e i tentativi di superarla  ^ 

La tutela antidiscriminatoria è stata storicamente una tutela selettiva: protegge da alcune disparità di trattamento, non da tutte; protegge alcuni gruppi, non tutti. In parte, questo è il retaggio dell’origine della tutela antidiscriminatoria, che nasce come risposta del diritto a fenomeni specifici di diseguaglianza e subordinazione sociale o come conseguenza di specifici fenomeni storici. Per altra parte, la selettività è un elemento costitutivo dell’idea liberale di eguaglianza sottostante alla legislazione antidiscriminatoria. Quest’idea non presuppone l’eguaglianza di tutti in tutti gli aspetti: non tutte le differenze vanno abolite ma solo quelle negatrici dell’eguale valore morale delle persone. Differenze legate al reddito e alle condizioni sociali, di per sé, non sono considerate discriminazioni; mentre lo sono quelle legate a caratteristiche costitutive dell’identità della persona, scelte o ascritte che siano.

Tuttavia, se questa concezione di eguaglianza può apparire una concezione astratta, non lo è affatto il processo di identificazione dei fattori di discriminazione. Che cosa ha portato a considerare una differenza illegittima, prima o al posto di un altra, non è stato una sua qualità naturale o permanente ma il significato che questa differenza ha assunto in un determinato contesto storico, all’interno di una data comunità.

Così, nel diritto internazionale, i divieti di discriminazione hanno tutelato, in origine, i gruppi di minoranza lasciati senza tutela dagli stati nazionali nella divisione fra le grandi potenze dello spazio geografico; l’Equality clause sancita dal 14 emendamento della Costituzione nordamericana è nata come specifica risposta alla sistematica esclusione dai diritti civili degli afro-americani solo formalmente inclusi, dopo l’abolizione della schiavitù, nel cerchio della cittadinanza; nel diritto dell’Unione europea, il sesso e la nazionalità sono stati inizialmente presi in considerazione in quanto caratteristiche soggettive suscettibili di incidere sul processo di integrazione economica; le direttive UE sui lavori atipici degli anni novanta aprono verso discriminazioni nascenti da particolari status contrattuali; il Trattato di Amsterdam, al nuovo articolo 13 del Trattato CE (ora art. 19 TFUE), menziona per la prima volta razza e origine etnica, religione, opinioni personali, orientamento sessuale, età, disabilità, come nuovi fattori vietati per adeguare l’ordinamento sovranazionale a un sentire comune di condanna di forme di discriminazione ormai avvertite come odiose; la Carta dei diritti fondamentali UE aggiunge alla lista nuovi fattori, quali le caratteristiche genetiche, il patrimonio, la nascita per combattere le diseguaglianze di destino e le nuove, possibili diseguaglianze nascenti dalla manipolazione della natura umana a opera della tecnica; la stessa ratio di tutela dalla faccia oscura dell’innovazione tecnologica spinge oggi a combattere le discriminazioni algoritmiche.

In altre parole, la discriminazione ha sempre avuto un significato specifico in base al contesto cui il diritto si riferisce. Il diritto fa sempre una diagnosi sociale quando etichetta una classificazione come discriminazione. L’elenco dei fattori vietati rinvia immediatamente all’esistenza di fenomeni storici di stigmatizzazione e di negazione del valore intrinseco della persona umana; a strutture politiche e sociali diseguali; a una disparità di potere, di capacità di mobilitazione, di rappresentazione degli interessi di gruppo; a situazioni radicate di svantaggio e vulnerabilità sociale. Si tratta di situazioni di diseguaglianza strutturale, di natura collettiva, diverse da fenomeni sporadici e transitori di svantaggio, che possono colpire chiunque ed essere il prodotto di circostanze fortuite o di decisioni isolate.

Sè selettiva, la tutela antidiscriminatoria è anche una tutela di carattere dinamico. Poiché le categorie della discriminazione sono socialmente e storicamente determinate esse sono, per lo stesso motivo, categorie mobili.

È questo contenuto variabile nel tempo della tutela antidiscriminatoria che rende arduo rispondere alla domanda sul carattere tassativo o meno dei divieti di discriminazione. Ragioni testuali (che guardano alla lettera della norma e alla volontà espressa dal legislatore) e funzionali (che guardano all’effettività della tutela, che appare tanto maggiore quanto più essa è selettiva) faranno propendere per la prima opzione interpretativa, per la tassatività. La tutela antidiscriminatoria appare, in questo caso, come sottosistema normativo avente caratteri distintivi propri che occorre non forzare, pena la perdita della sua ratio, della sua tenuta sistematica e della sua stessa legittimità. Se, invece, si adotta un approccio teleologico, se cioè si guarda alla ratio della tutela antidiscriminatoria, allora si leggeranno i fattori tipizzati come categorie solo esemplificative, suscettibili di essere integrate in via giurisprudenziale da altri fattori che rispondano alla medesima ratio che ha mosso il legislatore a vietare quelli enumerati.

Si prospetta in questo caso la possibilità di un ampliamento del sistema di tutela antidiscriminatoria, vale a dire a un’estensione in via interpretativa della tutela ad altre ipotesi di discriminazione non contemplate dal legislatore, a patto che tale apertura sia guidata dal controllo argomentativo, sulla base di un uso accorto dell’interpretazione estensiva o analogica. Ci si troverà, nel far questo, a camminare su uno stretto crinale, in cui, da una parte, vi sono bisogni di tutela da atti ingiusti arbitrari non pienamente soddisfatti dalla normativa vigente e che il diritto antidiscriminatorio potrebbe viceversa accogliere; dall’altra parte, vi sono, invece, esigenze di coerenza sistematica che portano a preservare i confini della fattispecie tipica denominata  discriminazione, affidandone l’ampliamento a un processo interpretativo controllato sotto il profilo funzionale.

Per chi studia il tema della discriminazione è difficile non vedere come il sistema antidiscriminatorio conosca da tempo questa apertura a forme non espressamente tipizzate di discriminazione. Si tratta di una tendenza dotata di più solide argomentazioni nelle giurisdizioni che adottano un modello a lista aperta, come, nel contesto italiano, fa l’art. 3 Cost. e, nel contesto sovranazionale, fanno l’art. 14 della Cedu e l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali UE. In questi casi, espressioni quali «condizioni personali» o «ogni altra condizione» o incisi quali «in particolare» che precedono la lista dei fattori espressi, consentono di ampliare la tutela a gruppi non esplicitamente menzionati e di adeguare il dato normativo alla mutevole realtà sociale. Così, a partire dal riferimento a «ogni altra condizione» contenuta nell’art. 14 della Convenzione, la Cedu ha esteso la tutela offerta dalla clausola antidiscriminatoria a gruppi non nominati, come gli omosessuali (Corte Edu 9 gennaio 2003, L. e V. c. Austria) e i disabili (Corte Edu 30 aprile 2009, Glor. C. Svizzera).

Nell’ordinamento dell’UE questa tendenza trova maggiori ostacoli, perché l’art. 21 della Carta non è considerato norma attributiva di competenze e tale da ampliare le competenza dell’Unione a combattere le discriminazioni derivanti dall’art. 19 TFUE.

Tuttavia, i percorsi giurisprudenziali seguono spesso vie più tortuose di quelle delineate dagli estensori della Carta e dai suoi interpreti. Si prenda il caso della giurisprudenza della Corte di giustizia sulla nozione di discriminazione basata sulla disabilità. Dopo aver escluso, nella sentenza Chacon Navas (CGUE, 11 luglio 2006, C-13/05), la possibilità di ampliare tale nozione in modo da farvi rientrare la malattia, nella sentenza H.K. e averla poi ulteriormente ristretta nel caso Z (CGUE,18 marzo 2014, causa C-363/12), richiedendo che la disabilità lamentata abbia riflessi diretti sulla vita professionale, la Corte ha aperto verso un’interpretazione estensiva facendo ricorso alla Convenzione Onu sulla disabilità del 13 dicembre 2006, ratificata dall’Unione europea con decisione del 26 novembre 2009. Aderendo al modello sociale più ampio fatto proprio dalla Convenzione e ritenendo che le sue disposizioni «formano parte integrante, a partire dalla sua data di entrata in vigore, dell’ordinamento giuridico dell’Unione» e che «la direttiva 2000/78 deve essere oggetto, per quanto possibile, di un’interpretazione conforme a tale Convenzione». la Corte è arrivata ad affermare che anche la malattia possa rientrare nella nozione di disabilità ove comporti anch’essa una limitazione di lunga durata. (CGUE, 11 aprile 2013, HK Danmark, causa C-335-11).

Allo stesso modo, leggendo la nozione di soluzione ragionevole di cui alla articolo 5 della direttiva 2000/78/Ce alla luce dell’ampia nozione di accomodamento ragionevole di cui all’articolo 2, quarto comma, della Convenzione Onu, la Corte ha affermato che l’elenco delle soluzioni ragionevoli non è tassativo e, pertanto, la riduzione dell’orario di lavoro può rientrare fra tali misure, sempre che questa non rappresenti un onere sproporzionato per il datore di lavoro, per procedere poi a fornire al giudice nazionale una serie di indicazioni utili al fine di compiere tale valutazione.

Tali diversità di esiti conferma, una volta di più, come, nonostante gli sforzi di specificazione dei redattori dei Trattati e della Carta, la determinazione delle competenze è spesso vaga e sempre contestabile e rimane quindi indeterminata e aperta.

La stessa variabilità emerge in tutte le circostanze in cui la Corte di giustizia ha avuto modo di affrontare la questione in riferimento sia al quadro normativo originario, che a quello successivo all’ampliamento della lista dei fattori vietati seguito alla modifica del Trattato CE e all’inserimento dell’art. 13 (ora art. 19 TFUE), fornendo risposte di segno contrastante. Nel caso P. (CGUE, 30 aprile 1996, causa C-13/94), i giudici hanno letto in senso evolutivo il fattore sesso fino a ricomprendervi ogni questione relativa all’identità di genere, a cominciare dal cambiamento di sesso, ritenendo che tollerare una discriminazione fondata sulle scelte di genere significa andar contro il rispetto della dignità e della libertà della persona. A un paio d’anni di distanza, nel caso Grant (CGUE, 17 febbraio 1998, causa C-249-96), gli stessi giudici hanno ritenuto di non potersi sostituire al legislatore, ormai abilitato a prendere iniziative a questo riguardo dal nuovo articolo del Trattato, e di non poter operare altre estensioni in via interpretativa del concetto nel senso di includervi anche l’orientamento sessuale. La Corte ha assunto un orientamento restrittivo anche in riferimento ai fattori razza e origine etnica e disabilità, introdotti dalle direttive degli anni duemila. Nel caso Kamberaj (CGUE, 24 aprile 2012, causa C-571/10), la Corte a ritenuto non applicabile il divieto di discriminazioni razziali ed etniche alle discriminazioni basate sulla nazionalità, di cittadini di paesi terzi, fattore esplicitamente estraneo all’ambito di applicazione della Direttiva 43/2000, escludendo anche la possibilità considerarle quali discriminazioni indirettamente fondate su razza e origine etnica, motivi vietati dalla Direttiva, che sarebbe, come dirò meglio più avanti, una delle strade attraverso cui dare rilievo a fattori non citati dall’ordinamento (si pensi alle discriminazioni delle lavoratrici part-time, ora vietate espressamente dalla direttiva n. 97/8 e prima ricondotte alle discriminazioni indirette di sesso (v. CGUE, 13 maggio 1986, Bilka, causa 170/84) e alle discriminazioni algoritmiche, considerate dalla giurisprudenza italiana un’ipotesi di discriminazione indiretta (basata, nel caso specifico, sulle convinzioni personali).

Un ampliamento dell’operatività dei divieti di discriminazione si è avuta, viceversa, a seguito dell’elaborazione da parte della CGUE del concetto di discriminazione per associazione. Questa volta il lavoro interpretativo della Corte ha inciso non sui fattori protetti ma sulla nozione di discriminazione, ma l’esito è stato comunque quello di un’estensione dell’ambito dei soggetti protetti. Nella sentenza Coleman (CGUE, 31 luglio 2008, causa C-303/06), la Corte ha affermato che dalla Direttiva 2000/78 non risulta in alcun modo che il principio della parità di trattamento che essa mira a garantire sia limitato alle persone esse stesse disabili. La Direttiva, al contrario, ha come obiettivo di combattere ogni forma di discriminazione basata sulla disabilità, comprese quelle che colpiscono le persone in qualche modo associate ai disabili, perché, come nel caso in questione, se ne prendono cura. Sono tutte le discriminazioni connesse alla disabilità, sulla base dunque di un nesso di causalità oggettivo, a recare danno alla coesione sociale e non solo quelle che colpiscono in modo diretto i disabili.

La Corte è tornata sulla nozione di discriminazione per associazione nel caso Chez (CGUE, 16 luglio 2015, C-83/14), in tema di discriminazioni a danno dell’etnia rom, interpretando in senso oggettivo e non soggettivo il nesso di causalità che lega il trattamento o l’effetto svantaggioso al fattore protetto. La condizione obiettiva dell’essere di origine rom può danneggiare non solo gli appartenenti a tale etnia ma anche coloro i quali si trovano a condividere con i rom le proprie condizioni di vita, circostanza che determina la condivisione di un trattamento meno favorevole o di un particolare svantaggio.

2. L’adattamento della nozione di discriminazione  ^ 

Come ho accennato prima, in altri casi è stata la nozione stessa di discriminazione a consentire un ampliamento del perimetro della tutela antidiscriminatoria a discriminazioni non tipizzate. Ho già menzionato due esempi in cui questo è accaduto: quello, ben noto, delle lavoratrici part-time e l’altro, forse meno noto, delle discriminazioni algoritmiche.

Nella prima decisione giudiziale italiana in tema di discriminazioni algoritmiche, il Tribunale di Bologna con ordinanza del 31 dicembre 2020, ha ritenuto discriminatoria la condotta della società Deliveroo, accusata di discriminare i lavoratori attraverso un algoritmo che stabiliva l’accesso alle sessioni di lavoro tramite la piattaforma digitale sulla base di un algoritmo (l’algoritmo Frank) che utilizzava statiche relative alla “partecipazione e affidabilità” dei lavoratori penalizzando quanti si astenevano dal lavoro per partecipare a uno sciopero.

Quello che ancora non è chiaro è quali siano gli strumenti più adatti a governare il management tramite algoritmi. Non ne sappiamo ancora abbastanza, tanto per cominciare, non solo perché i giuristi non sfuggono a quel deficit di cultura scientifica che costituisce uno delle debolezze della formazione tradizionale, ma anche perché questi sistemi sono spesso così complessi da risultare comprensibili solo a chi li ha costruiti. Se davvero il management attraverso algoritmi assicurasse obiettività e neutralità ai processi decisionali che si svolgono dentro le organizzazioni lavorative, lo si potrebbe considerare un’alternativa preferibile alla discrezionalità che connota larga parte di tali processi. Viceversa, gli algoritmi rimettono in questione proprio i concetti di obiettività e neutralità. Il problema, infatti, è che anche gli algoritmi sono “artefatti” e, come tutti gli artefatti realizzati dagli umani risentono del sistema di significati, concetti, idee, giudizi, precomprensioni che noi apprendiamo dalla nascita, a cominciare dall’apprendimento stesso del linguaggio.

Gli studi di semantica dimostrano che possiamo intenderci l’un l’altro non solo attraverso la logica o le argomentazioni ma già solo attraverso il modo in cui parliamo, le parole che usiamo, perché alle parole sono annesse già dei significati. Ne deriva che spesso nel mercato del lavoro digitale si riproducono esattamente gli atteggiamenti discriminatori che si riscontrano nei lavori “tradizionali”, poiché le menti che programmano gli algoritmi non sono diverse da quelle che, normalmente, scelgono chi assumere, promuovere, remunerare di più, licenziare e così via.

Rendersene conto non è semplice, perché, come si è detto, il linguaggio stesso degli algoritmi non ci è chiaro: il primo degli ostacoli nei quali i ricorrenti e i difensori del caso di cui si discute qui si sono imbattuti è stato proprio la mancanza di trasparenza dell’algoritmo. Ma allora se, fino alla fine della causa, l’algoritmo che decide delle occasioni di lavoro in Deliveroo è rimasto un oggetto fondamentalmente sconosciuto, come ha fatto la magistrata che ha deciso la causa a concludere nel senso dell’illegittimità del suo uso?

La riposta per i cultori del diritto antidiscriminatorio è nota da tempo. Il diritto antidiscriminatorio agisce sulle conseguenze degli atti, quando l’esistenza di un nesso causale fra quegli atti e lo svantaggio prodotto sugli appartenenti a una suspect class fa presumere l’esistenza di una discriminazione. Nella formazione di questa presunzione, come la Corte di Giustizia ha chiarito da Danfoss (CGUE, 17 ottobre 1989, causa 109/88), in poi, la mancanza di trasparenza dei meccanismi decisionali assume essa stessa rilevanza probatoria (anche se non decisiva), giacché, come affermato in Meister (CGUE, sentenza Meister,19 aprile 2012, causa -415/10), nell’assolvimento dell’onere della prova gravante su chi allega una discriminazione, deve essere garantito che il diniego di fornire informazioni da parte del convenuto non rischi di compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti dal diritto antidiscriminatorio.

Nel caso Deliveroo, quel che il giudice ha accertato è che i lavoratori che scioperavano in virtù delle loro convinzioni sindacali perdevano occasioni di lavoro, subivano, cioè, uno svantaggio fondato su uno dei fattori ricompresi fra quelli protetti dalla legge.

Quel che ne è seguito è la dichiarazione di illegittimità della condotta del datore di lavoro in quanto condotta indirettamente discriminatoria: «il considerare irrilevanti i motivi della mancata partecipazione alla sessione prenotata o della cancellazione tardiva della stessa…implica necessariamente riservare lo stesso trattamento a situazioni diverse, ed è in questo che consiste tipicamente la discriminazione indiretta».

La decisione sembra dar ragione a quella posizione dottrinale secondo la quale, proprio perché gli algoritmi sono una scatola nera difficile da decifrare, può risultare altrettanto difficile dimostrare una discriminazione diretta, vale a dire un trattamento meno favorevole da parte dell’algoritmo di un singolo o di un gruppo, basato sui fattori vietati. Questo problema si ritiene possa essere superato ricorrendo alla nozione di discriminazione indiretta, che consente di colpire criteri o pratiche apparentemente neutri idonei a mettere i membri di una categoria protetta in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone (il che lascia però spazio alla giustificazione, cosa che non accade nel caso delle discriminazioni dirette).

In effetti gli algoritmi, se pur resi “ciechi” ai fattori protetti, sono in grado di identificare dei “proxy” di tali fattori, vale a dire caratteristiche che valgono come indicatori, come misura di un fattore vietato. Il problema che si pone è se tale identificazione sia frutto o meno di una decisione consapevole da parte di chi usa l’algoritmo. In questo caso, i confini fra discriminazione diretta e indiretta diventano labili.

3. Le diverse ragioni delle scelte della giurisprudenza  ^ 

Come si accennava prima, spesso è il testo di legge a guidare l’interprete verso soluzioni testuali o teleologiche. Tuttavia le scelte ermeneutiche dipendono da un complesso gioco di fattori che va oltre la specifica vicenda oggetto del giudizio. Se, in via generale, può affermarsi che la distinzione fra modelli a lista chiusa e modelli a lista aperta va attenuandosi, il dibattito sui pregi e i difetti di ciascuno di essi si mantiene vivo, rinviando a questioni di carattere generale, che attengono ai rischi e ai pregi dell’attivismo giudiziario e rispecchiano mutevoli equilibri fra potere politico e potere giudiziario e, negli ordinamenti multilivello, fra attori nazionali e sovranazionali.

Una pronuncia in tema di discriminazione emblematica dell’ampia portata delle questioni che vengono affrontate e delle conseguenze delle decisioni giudiziali è la sentenza Bostock della Corte Suprema nordamericana (Bostock v. Clayton County, 590 U.S. (2020)), in cui la Corte era stata chiamata a decidere se fosse possibile invocare il Title VII del Civil Rights Act del 1964 – che proibisce qualsiasi discriminazione basata su sesso – anche nel caso di un licenziamento dovuto all’orientamento sessuale o al cambiamento di sesso del lavoratore. La decisione con cui la maggioranza della Corte ha risposto affermativamente, rovesciando l’orientamento espresso dalle corti di merito, è stata scritta dal giudice Gorsuch, noto per le sue posizioni conservatrici e per l’essere uno degli esponenti di spicco del “testualismo” in senso forte (o originalismo), fautore di una interpretazione strettamente letterale della legge e della Costituzione. «Quando i termini espliciti di uno statuto ci danno una risposta e considerazioni extratestuali ne suggeriscono un’altra, non c’è dubbio. Solo la parola scritta è legge e tutti hanno diritto di beneficiarne», scrive il giudice Gorsuch. Una sentenza che segna un deciso passo in avanti nella protezione delle minoranze omosessuali e transgender diventa così, paradossalmente, l’occasione per far guadagnare posizioni al costituzionalismo conservatore, che potrà avvalersene anche in altre arene decisionali e per altri scopi. Conta poco che, nel caso in questione, a prevalere sia stata davvero “la parola scritta”, suscettibile, lo si è visto, di molteplici interpretazioni. Conta di più, anche in vista di future decisioni, far affermare il testualismo come dottrina prevalente nel massimo organo giudiziario del sistema giuridico.

4. Le discriminazioni intersezionali  ^ 

Fino ad adesso mi sono soffermata sulle risorse che il diritto antidiscriminatorio offre per estendere la portata della tutela a situazioni nuove. Non voglio, tuttavia, eludere le principali obiezioni mosse alla costruzione giuridica del significato di discriminazione, vale a dire la sua scarsa capacità di identificare e combattere le fonti strutturali delle disuguaglianze sottostanti la discriminazione perpetrata ai danni di alcuni gruppi sociali. A queste obiezioni si potrebbe rispondere osservando che anche il concetto tradizionale di discriminazione diretta, che si riferisce al trattamento diverso di un singolo individuo per uno dei singoli motivi vietati, rinvia in realtà ad una spiegazione strutturale della disparità. Le nozioni di pregiudizio e stereotipo, che sono il nucleo del divieto di discriminazione diretta, si riferiscono ad una dimensione di gruppo, ad una dimensione strutturale. Il problema, semmai, è che, per azionarsi, il divieto di discriminazioni dirette richiede che, tutte le altre condizioni essendo eguali, l’elemento differenziatore sia unicamente quello vietato, circostanza che si verifica di rado nel caso delle discriminazioni tipiche, che influenzano la condizione complessiva di vita e di relazioni con gli altri dei gruppi oggetto di discriminazioni.

Lo stesso non si può dire, però, quando si considera la nozione di discriminazione indiretta. La discriminazione indiretta comporta necessariamente una diagnosi di disuguaglianze sistemiche, strutturali, perché il comportamento illecito si riferisce alla combinazione dei motivi vietati di differenziazione con altri fattori strutturalmente connessi ad essi. È questa combinazione che produce il diverso impatto (oggi “un particolare svantaggio”) proibito. Questo significa estendere la catena causale che collega la condotta ritenuta illecita ai fatti sociali che ne sono origine ed è per questa ragione che viene dato più spazio alle giustificazioni dell’autore della condotta. Tuttavia, diversamente dal caso delle discriminazioni dirette e delle molestie, in quello delle discriminazioni indirette, una difesa è, in linea di principio, ammissibile.

Potrebbe la nozione di discriminazione multipla (o intersezionale), come è stato suggerito, consentire di prendere in considerazione vari fattori discriminazione, connessi l’uno all’altro e tali da amplificare, se incrociati, lo svantaggio sofferto e arrivare, per questa strada, alle radici strutturali della diseguaglianza? L’ipotesi è testualmente prevista solo nel Considerando 14 della Direttiva 43/2000 e nel Considerando 3 della Direttiva 78/2000 in relazione alle discriminazioni multiple che colpiscono le donne; ma è stata poco o per nulla presa in considerazione dalla Corte di Giustizia e dalle corti nazionali. La dottrina, viceversa, attribuisce alla nozione la capacità di riflettere e combattere il carattere complesso della diseguaglianza. Le discriminazioni intersezionali esprimono, infatti, una realtà sociale ove i gruppi socialmente svantaggiati sperimentano varie forme di discriminazione che interagiscono fra loro, fino a non essere più distinguibili e separabili, e le identità soggettive sono attraversate da varie appartenenze. Bandire il velo dai luoghi di lavoro, ad esempio (v. CGUE, 14 marzo 2017, Achbita, causa C-157/15), può implicare una discriminazione fondata sulla religione ma anche riflettere pregiudizi di genere e razziali. Il diritto fatica a riflettere questa realtà, come mostra la difficile applicazione giurisprudenziale di tale nozione di discriminazione, dovuta anche a un apparato normativo che, a cominciare dalle regole sull’onere della prova, tende a favorire una rappresentazione unidimensionale della discriminazione. La Corte di Giustizia, nel caso Parris (CGUE, 24 novembre 2016, causa C-443/15), non ha accolto il suggerimento dell’Avvocato generale Kokott di adottare, nell’esame del caso, la prospettiva delle discriminazioni intersezionali, il che ha concorso a determinare il rigetto della domanda. Ma lo stesso Avvocato generale non aveva fornito indicazioni su come condurre, dal punto di vista operativo, un’analisi di tipo intersezionale, a partire da come compiere un giudizio di proporzionalità che includa due o più fattori.

La Proposta di direttiva che dovrebbe estendere l’ambito di applicazione dei divieti sanciti dalla Direttiva 2000/78 oltre il lavoro (Proposta di direttiva Com/2008/426 fin) il cui iter normativo è al momento interrotto, non prevede disposizioni in merito alle discriminazioni intersezionali. Lo fanno, invece, gli emendamenti alla Proposta presentati dal Parlamento europeo (Parlamento europeo, Risoluzione 2 aprile 2009 sulla Proposta COM (2008) 426 fin), che stabiliscono un divieto sistematico di discriminazioni intersezionali che attraversa tutti i fattori vietati, il che denota che, a livello di dibattito politico sovranazionale, il problema è ormai emerso. Non può dirsi lo stesso del contesto nazionale. In Italia neppure uno dei più recenti interventi normativi in tema di discriminazione (l. n. 162/21) fa menzione delle discriminazioni intersezionali.

Sono stati sollevati numerosi dubbi sui reali guadagni che porterebbe l’adozione della nozione di discriminazione intersezionale. La critica mossa da questo approccio al diritto antidiscriminatorio tradizionale è radicale: il diritto antidiscriminatorio - si dice - si mostra refrattario a riconoscere la connessione fra tra varie categorie sociali che determinano la discriminazione. E tuttavia, a mio avviso, i divieti di discriminazione hanno un forte valore diagnostico proprio perché sono in grado di mostrare in modo preciso, non vago, le “direzioni di causalità”, ovvero come una variabile dipendente Y sia spiegabile dalla variabile esplicativa X, e portare perciò ad una stima più robusta delle relazioni di causa-effetto. Il che è qualcosa che le spiegazioni olistiche spesso non sono in grado di fornire perché ci consegnano immagini suggestive, in cui tutto è legato a tutto, tutto si spiega con tutto, in una sorta di equilibrio vizioso. E se tutto è spiegato da tutto, è anche difficile individuare un punto di rottura di questo l’equilibrio.

Ad esempio, nei casi in cui associazioni e individui hanno sfidato in tribunale gli autori di diversi casi di discriminazione istituzionale contro i migranti, lo svantaggio subito da questi ultimi nasceva certamente da diversi fattori strutturali (inclusa la povertà o la scarsità di mezzi), ma ciò che risultava decisivo come fattore di svantaggio era proprio il fatto di non essere cittadini, di avere una razza o origine etnica diversa, di appartenere perciò a una minoranza non rappresentata nel processo politico, i cui interessi potevano più facilmente essere annullati dal prevalere di interessi più forti.

Una seconda osservazione è che l’esigenza di trovare un soggetto a cui comparare la propria situazione può rivelarsi particolarmente difficile quando quello di cui si ha bisogno è un soggetto che presenta la combinazione opposta di fattori.

Infine, un’altra ragione per cui la categoria dell’intersezionalità può risultare problematica è che solleva immediatamente il problema della misura in cui categorie e tipologie di soggetti possono moltiplicarsi e riconfigurarsi e come la legge può gestire questa proliferazione.

Tuttavia, nonostante questi dubbi sulla bontà euristica della nozione, vi è almeno una ragione per cui la discriminazione multipla intersezionale può risultare una categoria utile al diritto antidiscriminatorio: quella di cogliere un fatto che le categorie tradizionali tendono a ignorare e cioè, come osserva Sandra Fredman (Intersectional discrimination in EU gender equality and non-discrimination law, Bruxelles, European Commission, 2016, p. 31), che le persone hanno identità multiple e che le diverse identità non sono omogenee, cosa che le teorie “essenzialiste” tendono a dimenticare. È stata soprattutto la critica delle femministe di colore alle femministe della classe media bianca a porre in luce come l’”essenzialismo” si traduca nel rendere universale quella che è invece una esperienza di vita, di classe, di status sociale particolare. Lo stesso accade con altre categorie, come la religione o l’etnia. Pensare alle categorie del diritto antidiscriminatorio come a delle singole identità presuppone che queste identità siano fisse, immutabili e determinate soprattutto dalla percezione soggettiva del sé, e oscura altre differenze di tipo oggettivo, come ad esempio le differenze di classe o di reddito.

La nozione di discriminazione intersezionale ricorre un paio di volte nel diritto dell’Unione Europea. L’ipotesi è testualmente prevista nel Considerando 14 della Direttiva 43/2000 e nel Considerando 3 della Direttiva 78/2000 in relazione alle discriminazioni multiple che colpiscono le donne; ma è stata poco o per nulla presa in considerazione dalla Corte di Giustizia e dalle corti nazionali.

Nel sistema italiano la si ritrova qualche volta nella normativa di recepimento delle direttive (come gli artt. 1 del decreto 215/2003 e del decreto 216/2003) e in alcune decisioni che, pur non menzionando le discriminazioni intersezionali o utilizzando espressamente un’analisi di tipo intersezionale, fanno riferimento a più fattori cumulati di discriminazione. È il caso di alcune sentenze della Corte costituzionale italiana che hanno ritenuto discriminatoria l’esclusione dei cittadini di pesi terzi da alcuni benefici sociali sulla base sia della loro nazionalità che della loro condizione di disabili (sentenza n. 306/2008; n. 432/2005;n. 54/1998) e di una recente sentenza del Tribunale di Bologna del 31 dicembre 2021 che ha ritenuto la condotta del datore di lavoro che aveva imposto nuovi orari di lavoro incompatibili con la cura di con figli in tenera età discriminatoria sulla base sia del genere che della condizione di genitore e care giver.

In riferimento alla Spagna si può menzionare una decisione dell’Alta Corte della Galizia (sentenza 3041/2008) nella quale i giudici hanno confermato l’invalidità del licenziamento di un dipendente perché l’azienda aveva violato «il suo diritto alla parità di trattamento “senza discriminazioni“ per motivi di genere, (...) opinione o qualsiasi circostanza personale o sociale» (articolo 14 del codice spagnolo Costituzione) e il suo diritto alla “libertà ideologica”».

È difficile prevedere quale possibilità vi sia che la nozione di discriminazione intersezionale venga accolta nel diritto positivo. Anche la Proposta di Direttiva che dovrebbe ampliare il campo di applicazione della Direttiva quadro non la menziona, nonostante la raccomandazione avanzata in tal senso dal Parlamento europeo. Se davvero l’apporto che tale nozione può dare alla teoria della discriminazione è quella di portare i giudici a considerare il contesto complessivo in cui ciascun fattore di discriminazione si situa, forse si potrebbe chiedere alle corti di adottare in qualsiasi circostanza almeno un’analisi di tipo intersezionale, sulla base quanto meno dei fattori espressamente tipizzati.

Mi sembra che vada in questo senso anche la proposta del gruppo di esperti europei sulla discriminazione. Nel suo rapporto sulle discriminazioni intersezionali, prima menzionato, Sandra Fredman suggerisce che ciascun fattore venga interpretato in senso estensivo, in modo da catturare le strutture di potere stratificato che si celano dietro le condotte discriminatorie.

Questo genere di approccio, in verità, è già impiegato ogni volta che il giudizio di discriminazione si allarga all’insieme delle condizioni che definiscono le caratteristiche del gruppo svantaggiato, come è accaduto nei casi primi menzionati. Nel caso deciso dal Tribunale di Bologna era forse possibile che non tutte le donne fossero discriminate dal nuovo regime di orario, ma certamente chi era donna e madre lo era; e nel caso deciso dalla Corte Costituzionale era possibile che non tutti gli stranieri fossero disabili svantaggiati dalle condizioni di accesso ai benefici previsti per i disabili, ma certamente chi era straniero e disabile lo era. In altre parole, più è possibile includere nel giudizio di discriminazione le diverse identità delle persone, più cresce la possibilità di una tutela effettiva dalle discriminazioni

Torniamo così ruolo cruciale dell’interpretazione nel diritto antidiscriminatorio, al potente armamentario di strumenti ermeneutici che possono essere messi in campo anche a diritto invariato per affrontare le nuove dimensioni della diseguaglianza.