MODESTIA, PUDICIZIA E RISERBO: LA VIRTÙ ISLAMICA DETTA ḤAYĀʾ

MODESTY, DECENCY AND RETICENCE: THE ISLAMIC VIRTUE KNOWN AS ḤAYĀʾ

Ida Zilio-Grandi

Università Ca’ Foscari Venezia

idazg@unive.it

Recibido: 23-11-2017

Aceptado: 15-05-2018

Abstract

Il saggio propone un percorso attorno alla qualità morale detta ḥayāʾ, promossa dal discorso islamico contemporaneo soprattutto in relazione all’abbigliamento femminile. Grazie all’indagine sulla letteratura islamica fondativa (Corano, Sunna del Profeta) e su altra letteratura di impianto tradizionale e argomento morale (ad es. il Kitāb al-zuhd di Abū Dāwūd o il Makārim al-akhlāq di Ibn Abī al-Dunyā), e con l’aiuto della lessicografia classica, il ḥayāʾ, normalmente tradotto con modestia, si offre come un costituente imprescindibile nella vita di tutti i credenti, irriducibile all’universo femminile e anche all’apparenza esteriore. Si tratta infatti di una pudicizia di ampio respiro, fondata principalmente sull’astensione della vista e non solo dalla vista, e anche sulla reticenza di parola, corrispondente a un rispetto di sé e del prossimo che si presta alla comprensione e di più alla condivisione di chi appartiene a una diversa tradizione culturale.

Parole chiave: etica islamica, Corano, Sunna, modestia, castità, ʿawra.

Abstract

This paper surveys the moral quality known as ḥayāʾ, prompted by contemporary Islamic debate in relation particularly to women’s dress. On the basis of an interrogation of the foundational Islamic literature (the Koran, the Prophet’s Sunna) and other tradition based or morally oriented writings (e.g. Abū Dāwūd’s Kitāb al-zuhd or Ibn Abī al-Dunyā’s Makārim al-akhlāq), and with the help of classical lexicography, ḥayāʾ, usually translated as ‘modesty’, emerges as an essential element in the life of every believer, not confined to the world of women, nor to external appearances. It is rather a question of a wide-ranging decency, rooted principally in an abstention from looking, as much as from displaying, and equally in verbal reticence, and goes hand-in-hand with a respect for oneself and for others, such as may be readily understood, even shared, by those belonging to different cultural traditions.

Keywords: Islamic ethics, Qur’an, Sunna, modesty, chastity, ʿawra.

1. Premessa

Negli ultimi anni, l’editoria islamica ha proposto un numero crescente di saggi dedicati alla qualità detta in arabo ḥayāʾ, considerata una delle principali caratteristiche di chi aderisce all’Islam1. Quanto ai contenuti, il termine ḥayāʾ è oggi comunemente tradotto con “modestia”2 e per lo più chiamato in causa in riferimento alla donna e alla decenza dell’abbigliamento femminile3. E in effetti, proprio in quest’ultima accezione, la “modestia” è all’ordine del giorno anche per la rilevanza delle iniziative commerciali che vanno sotto il nome di “modest fashion4.

Tuttavia, a differenza dell’italiano “modestia”, ḥayāʾ non dice affatto la dissimulazione o l’occultamento dei meriti quale opposto della vanità e della presunzione5 e nemmeno la moderazione e la misura6 che della modestia sono i presupposti etimologici (si consideri il lat. modestus, da modus). Esprime invece il disagio, la timidezza, l’imbarazzo e perfino la goffaggine7 che insorgono di fronte a una condotta reprensibile, propria o altrui, anche ma non solo nel contesto dell’interazione con gli altri e in prospettiva di genere. I grandi dizionari della lingua classica assimilano il ḥayāʾ all’ambito ampio della decenza o del decoro (in arabo ḥishma) come pure alla retrocessione dall’errore e dall’offesa (tawba); e ne fanno il contrario di una altrettanto generica impudenza (waqāḥa)8. Si tratta dunque di una pudicizia o verecondia di ampio respiro, un rispetto di sé e degli altri che sarebbe scorretto ridurre a comportamento circostanziato e tanto più a semplice modalità dell’apparire.

Considerando da una parte la crescente rilevanza della “modestia” nel discorso islamico contemporaneo - ivi comprese le estensioni di tale discorso in ambito europeo - e dall’altra la spesso scorretta percezione che l’Occidente ha della moralità islamica, questo saggio propone un’indagine sulle fonti testuali dell’Islam attorno al termine ḥayāʾ: lo scopo è controbattere all’impoverimento di cui esso è facilmente oggetto nella contemporaneità, illuminarne invece la vasta estensione semantica, e infine sottoporre i suoi contenuti a un possibile consenso interculturale9.

2. La “modestia” dello sguardo

Il Corano, nella sura della Luce, assegna un aspetto discreto e sobrio alla muslima di ogni età e in tal modo associa la donna credente alla dissimulazione e all’occultamento fisico. Le anziane “non peccheranno se deporranno le loro vesti, senza mostrare le loro bellezze, ma se lo eviteranno sarà meglio per loro” (Q 24,60)10, e quanto alle giovani, si tratta del celebre passo a cui si deve l’uso del khimār: “Di’ alle credenti (muʾmināt) che abbassino lo sguardo (an yaghḍuḍna min abṣāri-hinna) e custodiscano la loro castità, che non mostrino (lā yubdīna) le loro bellezze eccetto quel che è visibile, che si coprano il petto con i loro veli […])” (Q 24,31).

Secondo questi passi, il comportamento onorevole della muslima poggia sul modo in cui essa si offre o meglio si sottrae agli occhi possibilmente indiscreti di chi la osserva. Nondimeno, la corretta attitudine femminile poggia anche, e prima, sul controllo della facoltà visiva - si ricordi: “Di’ alle credenti che abbassino lo sguardo [...]”. Vale a dire che la buona musulmana, prima di salvaguardare se stessa dallo sguardo degli altri, dovrà fare attenzione a soffermare lo sguardo solo sulle cose lecite (mā yuḥillu); cioè, come affermano gli esegeti di pressoché ogni epoca e scuola, solo sulle parti del corpo altrui che la convenzione giuridica ha dichiarato lecite. È dunque in oggetto la definizione di ʿawra o “zona della modestia”, la quale interessa il diritto islamico per questioni di pubblica decenza e anche perché l’esposizione della ʿawra invalida la preghiera11.

L’obbligo di ritrarre la vista dalla ʿawra altrui come pure di adoperarsi alla salvaguardia della propria castità coinvolge anche l’uomo, e negli stessi termini. Sempre nella sura della Luce, nel versetto immediatamente precedente quello sulla pudicizia femminile, compare un’espressione del tutto analoga12 che impiega un maschile plurale: “Di’ ai credenti (muʾminīn) che abbassino gli occhi e custodiscano la loro castità, è cosa più pura per loro, Dio tiene il conto di quel che fanno” (Q 24,30).

I versetti appena citati, che dichiarano la parità dei generi quanto all’ordine e all’interdizione13, portano i commentatori a discutere la liceità dello sguardo (baṣar, naẓar) ma anche la sua pregnanza, per gli uomini come per le donne: nelle varie proposte esegetiche gli occhi appaiono in effetti come brecce o varchi aperti al passaggio nei due sensi, che da un lato vanno difesi perché si fanno penetrare e invadere, e dall’altro vanno controllati perché lanciano all’esterno ciò che indebitamente si insedia negli altri. Un buon esempio è offerto dal commentario del giurista andaluso Muḥammad al-Qurṭubī (m. 671/1272), dal titolo La raccolta completa dei precetti coranici (Jāmiʿ al-aḥkām li-al-Qurʾān).

L’autore nota immediatamente che, nella sequenza proposta dal Testo sacro, l’astensione dalla vista precede l’astinenza sessuale, e che tale priorità è accordata allo sguardo per due volte consecutive - si ricordi: “Di’ ai credenti […], di’ alle credenti […]”. E spiega che nel primo caso si tratta dello sguardo di uomini e donne insieme, perché così vanno intese tutte le occorrenze del maschile plurale nel Corano14; gli occhi di tutti, dunque, sono “la più grande porta (al-bāb al-akbar) verso il cuore, la più frequentata tra le vie dei sensi (ṭuruq al-ḥawāss) che al cuore conducono, via sulla quale cadono in molti”15; quanto allo sguardo delle donne in particolare, esso “apre la via al cuore (ʾid li-l-qalb) come la cecità apre la via alla morte” ed è “una freccia di Iblīs, piena di veleno”16.

Sulla concupiscenza degli occhi femminili, al-Qurṭubī ricorda tra l’altro che Muhammad proibì alle mogli di guardare un cieco: “[...] Il Profeta (s) disse a lei [Umm Salama] e ad al-Maymūna, dopo che era entrato il figlio di Umm Maktūm, di nascondersi (cfr. “iḥtajibā!”). Risposero: “Ma è cieco!”. Ribatté: “E siete cieche voi? Non lo vedete voi?”17.

L’autore cita anche un detto che rende lo sguardo umano un atto sessuale perpetrato con la vista:

Dio ha scritto per l’uomo (ibn Ādam) l’adulterio (zinā) che commetterà e lo commetterà certamente perché gli occhi fornicano (tuzanniyāni) e il loro adulterio è lo sguardo (naẓar). Quanto a chi abbassa lo sguardo, per costui Dio ha in serbo la dolcezza nel cuore18.

3. Una virtù femminile?

I versetti sulla pudicizia dello sguardo ripresi sopra dalla sura della Luce (Q 25,30-31) sono normalmente chiamati in causa, in antico come oggi, per corroborare l’islamicità della “modestia”19; eppure essi non contengono il termine ḥayāʾ. D’altro canto, ḥayāʾ non compare mai nel Corano, il quale attesta invece una volta istiḥyāʾ, etimologicamente affine e di significato simile. È la sura del Racconto in un passo sulla vita di Mosè: “Una di quelle due donne, camminando pudicamente (cfr. tamshī ʿalā istiḥyāʾ), andò verso di lui [Mosè]. Gli disse: - Mio padre ti invita per ricompensarti, perché hai abbeverato il gregge per noi. Mosè andò da lui e gli raccontò la sua storia” (Q 28,25).

Quando glossa la “modestia” della donna in questione20, al-Ṭabarī (m. 310/923) tra gli altri insegna che la donna camminava riparandosi il viso con la veste (thawb, qamīṣ, dirʿ) e che parlò a Mosè da dietro la stoffa perché non era sfacciata e indiscreta (kharrāja, lājja)21. Sullo stesso tema, al-Zamakhsharī (m. 538/1144), nello Scopritore delle verità della Rivelazione (Al-kashshāf ʿan ḥaqāʾiq al-tanzīl), aggiunge che mentre la giovane guidava Mosè verso la casa del padre un colpo di vento le alzò la veste e ne scoprì il corpo; quindi Mosè le propose di camminare dietro di lui22. Fakhr al-Dīn al-Rāzī (m. 606/1209), nelle Chiavi dell’Arcano (Mafātīḥ al-ghayb), rincara la dose, dall’occultamento alla rimozione, e richiama la distanza che quella donna metteva tra sé e gli uomini quando camminava23. Comunque sia, è chiaro che l’esegesi coranica propone volentieri, in questo caso, una lettura esteriore della “modestia”, legata nella fattispecie al nascondimento della femminilità. Del resto, come si è appena visto, l’unica ricorrenza puntuale della “modestia” nel Corano si riferisce proprio a una giovane, e questo non è trascurabile: da un lato testimonia che ai tempi del Profeta il ḥayāʾ/istiḥyāʾ era sentito come un valore precipuamente femminile24, dall’altro ciò non poté che segnare la continuità di simile convinzione nel pensiero successivo.

A riprova del rapporto che lega la “modestia” alla femminilità basta pensare ai racconti che insistono sul ḥayāʾ del Profeta accostandolo, appunto, a quello di una ragazza; e così, curiosamente, fanno di un tratto femminile una fonte di ammirazione nell’uomo. Ecco un esempio, tratto dalla raccolta di tradizioni compilata da al-Bukhārī (m. 256/870): “Il Profeta (s) era più pudico (ashadd ḥayāʾan) di una vergine dietro la sua tenda, e quando vedeva qualcosa che lo irritava noi ce ne accorgevamo dal suo viso”25.

Passi come questo figurano facilmente nei commentari a proposito della “modestia” di Muhammad a cui allude la sura delle Fazioni alleate26: “Voi che credete […], entrate quando siete invitati e poi ritiratevi, e non attaccate discorso con familiarità, è cosa che irrita il Profeta, il quale ha pudore (yastaḥyī) e non ve lo dice, ma Dio non ha pudore (lā yastaḥyī) della verità” (Q 33,53).

Le attribuzioni maschili del ḥayāʾ non sono affatto rare nella letteratura tradizionistica. Come pudicizia nell’abbigliamento esso qualifica Mosè secondo un detto del Profeta ripreso nuovamente da al-Bukhārī:

Mosè era un uomo modesto e riservato (ḥayīy sittīr), e a causa della sua pudicizia (istiḥyāʾ) neppure un lembo della sua pelle era scoperto. Alcuni Ebrei parlarono male di lui e dissero: - Tutta questa segretezza non può celare altro che un difetto della pelle, o la lebbra o un’ernia o una lesione. Ma Dio volle che fosse assolto da quel che essi avevano detto. Un giorno che si trovava da solo, Mosè mise gli abiti sulla sua cavalla, si lavò, e quando ebbe terminato tornò per rivestirsi ma la cavalla se n’era andata via con i suoi abiti. Mosè prese il bastone e corse a cercare la cavalla continuando a gridare: “Cavalla! i miei abiti! i miei abiti!” finché capitò in mezzo a un gruppo di Ebrei che lo videro nudo, ed era quanto di più bello Iddio avesse creato […]27.

In un detto citato, per esempio, nel commentario di al-Ṭabarī, si tratta invece della modestia di Adamo:

Il vostro padre Adamo era grande di statura, come una palma alta, sessanta cubiti; aveva molti capelli, e nascondeva quel che non è lecito mostrare (ʿawra). Disubbidì, si accorse della propria nudità e impaurito si mise a scappare per il Giardino […]. Dio lo chiamò: - Fuggi da me, Adamo? - No, Signore mio, – rispose - ma provo vergogna (ḥayāʾ) di fronte a Te per quel che ho commesso […]28.

Sempre la modestia è il tratto principale di ʿUthmān ibn ʿAffān (m. 35/655) secondo un detto del Profeta accolto dal tradizionista al-Tirmidhī (m. 279/892):

Nella mia comunità, il più misericordioso con la mia comunità è Abū Bakr, il più forte nell’imporre l’ordine di Dio è ʿUmar, il più verace per modestia (ḥayāʾan) è ʿUthmān, il più dotto quanto al lecito e al proibito è Muʿādh ibn Jabal, il più ligio ai precetti è Zayd ibn Thābit, e colui che meglio recita [il Corano] è Ubayy ibn Kaʿb [...]29.

Un esempio, notevolissimo, di come la modestia sappia trascendere i generi della specie umana è quello che chiama in causa la divinità, il cui modo d’essere e di fare è non di rado proposto al credente come inarrivabile modello delle virtù creaturali30. Il ricorso a Dio con l’impulso all’imitazione di Lui mutatis mutandis anche nel caso della modestia31 dimostra una volta di più che, nella percezione islamica, l’intera questione dell’etica della virtù travalica la figura del Profeta e attinge direttamente alla figura divina. Ecco un racconto, nella versione trasmessa da al-Nasāʾī (m. 303/915):

L’inviato di Dio vide un uomo (rajul) che si lavava davanti a tutti (bi-l-barāz). Allora salì sul pulpito, lodò Dio e lo celebrò e poi disse: “Dio Altissimo ed Eccelso è assennato, verecondo e riservato (ḥalīm ḥayīy sittīr), ama la modestia e il nascondimento (ḥayāʾ, satr); dunque, quando uno di voi si lava, sia riservato (fa-l-yastatir)”32.

Ma torniamo alla modestia di Muhammad e a un detto accolto nel Kitāb al-zuhd (“Il libro della rinuncia”) dal tradizionista Abū Dāwūd (m. 275/819 ca.): “Da qualche Compagno. L’inviato di Dio (s) ha detto: - Davvero provo più vergogna (ḥayāʾ) davanti ai miei morti che davanti ai miei vivi, perché ai morti è dato di vedere il mio operato”33.

Evidentemente, nel caso del riserbo davanti ai morti – per non parlare dell’imitazione di Dio - è difficile ridurre la “modestia” a una dimensione esteriore; il ḥayāʾ sembra esprimere piuttosto un pudore astratto e indeterminato per tutto ciò che contrasta la probità, nell’azione e nell’intenzione. Questa ampiezza di contenuti si ritrova in altri racconti. Per esempio, ancora nel Libro della rinuncia di Abū Dāwūd, dove il Compagno ʿAbd al-Muṭṭalib ibn al-Ḥārith, interrogato sulla povertà alla quale aveva ridotto i suoi due figli, rispose che si vergognava (cfr. “la-astaḥyī) davanti a Dio di confidare in altri che Dio stesso per la loro sussistenza34.

Ancora un esempio, utile in questa sede sebbene di dubbia autenticità, è il detto del Profeta citato e discusso da Abū Ṭāhir al-Silafī (m. 576/1180), tradizionista di origine persiana, che riguarda la “modestia” degli armenti: “essi non hanno mai alzato il capo al cielo per pudore di Dio (ḥayāʾan min Allāh)”35. Un significato ancora più traslato di disagio, fastidio o timore si rileva infine nel compendio di tradizioni redatto da al-Bazzār (m. 292/905), là dove il Compagno Ḥudhayfa (m. 36/656) dichiara d’essersi astenuto dal combattimento notturno “solo per ḥayāʾ del freddo”36.

4. Ibn Abī al-Dunyā e il nobile costume del ḥayāʾ

Ibn Abī al-Dunyā di Baghdad (m. 281/894), stimato precettore alla corte dei califfi abbasidi, dedicò alla moralità islamica un’opera dal titolo I nobili costumi (Makārim al-akhlāq), di impianto interamente tradizionale37. Il materiale raccolto nelle tre sezioni sul ḥayāʾ – A proposito della “modestia” e della sua eccellenza; La “modestia” è fra i tratti della profezia; La “modestia” dovuta38 - concerne una qualità scarsamente circostanziata e senz’altro irriducibile alla fisicità o all’universo femminile, a partire dalle parole di ʿĀʾisha bint Abī Bakr (m. 58/678) che inaugurano la trattazione: “il ḥayāʾ è il capo (raʾs) dei nobili costumi”39.

Poco oltre nell’opera compare un detto di Muhammad che insiste a sua volta sulla priorità del ḥayāʾ: “Tra quel che la gente ha appreso dalle parole della prima profezia (al-nubuwwa al-ūlā), c’è questo: se non ti procura vergogna, fa’ pure quel che vuoi” (idhā lam tastaḥi fa-ṣnaʿ mā shiʾta)”40.

Evidentemente, includere la “modestia” nella più antica rivelazione divina (cfr. al-nubuwwa al-ūlā) – si tratti di versetti coranici della prima ora, oppure della religione principiale, quella di Adamo o di Abramo - dista poco dal farne un’inclinazione naturale alla fede41 e al bene42. Sul ḥayāʾ come equivalente del bene sic et simpliciter, ecco un dialogo tra il Compagno ʿImrān ibn Ḥuṣayn e il più giovane al-ʿAlāʾ ibn Ziyād (m. 78/697 ca.):

ʿImrān ibn Ḥuṣayn riportò: - Ho udito l’Inviato di Dio (s) dire che la modestia (ḥayāʾ) è il bene tutto intero (al-khayr kullu-hu). Al-ʿAlā’ ibn Ziyād ribatté: - Però nei libri leggiamo che da essa deriva anche debolezza (ḍuʿf). - L’altro si infuriò: - Io ti riferisco dall’Inviato di Dio e tu mi contraddici parlando di libri!43.

Un ottimo esempio offerto da Ibn Abī al-Dunyā sull’ampiezza della “modestia”, che spazia dall’esteriorità all’interiorità, è la seguente esortazione del Profeta ai suoi Compagni:

Siate modesti nei confronti di Dio della modestia dovuta (istiḥyāʾ […] ḥaqq al-ḥayāʾ). Proteggete la testa e quel che essa comprende (waʿā) e il ventre e quel che esso contiene (ḥawā), e ricordate la morte e la putrefazione. Chi mira alla vita dell’aldilà abbandoni gli ornamenti della vita terrena. Solo chi fa questo è modesto nei confronti di Dio della modestia dovuta44.

Ancora sull’ampiezza della “modestia”: “Un uomo disse: - Inviato di Dio, fammi una raccomandazione! - Rispose: Ti raccomando di avere pudore di Dio Benedetto ed Eccelso come hai pudore (tastaḥī) di un uomo pio (ṣāli) tra la tua gente”45.

Altri racconti ripresi dall’autore glossano il passo coranico già visto sopra, nella sura delle Fazioni alleate (Q 33,53), dove è questione della reticenza di Muhammad con gli ospiti invadenti. In questi racconti, il ḥayāʾ si trova confinato all’ambito verbale46: “L’Inviato di Dio (s) ha detto: La modestia (ḥayāʾ) e la reticenza (ʿayy) sono due branche della fede, mentre la scurrilità (badhāʾ) e le chiacchiere (kalām) sono due branche dell’ipocrisia (nifāq)”47.

Ancora sul riserbo verbale del Profeta, Ibn Abī al-Dunyā riferisce un ricordo di Anas ibn Malik (m. 91/709 ca.): “L’Inviato di Dio (s) non diceva in faccia (lā yuwājihu) ad alcuno quel che trovava odioso [in costui]”48.

Un ultimo esempio sulla modestia come pudicizia verbale, e insieme come generica astensione dal comportamento turpe e intemperante, è un’esortazione di Muhammad a ʿUrwa ibn Masʿūd (m. 9/630): “Dio ama il reticente pieno di modestia (ʿayīy ḥayīy) e il continente che si astiene (ʿafīf mutaʿffif), mentre odia chi è sfrontato e licenzioso (badhī fāḥish) e chi domanda ed è importuno (sāʾil mulḥif)”49.

5. Una possibile conclusione

Grazie agli esempi citati sopra, tratti dal Corano e più spesso dalla letteratura tradizionistica secondo qualche raccolta sintomatica, tiriamo ora le fila sulla qualità detta ḥayāʾ (o anche istiḥyāʾ): è senz’altro riferibile alle donne ma non soltanto ad esse giacché è possibilmente partecipata dagli uomini e in loro largamente apprezzata; quanto ai contenuti, è un intreccio di attitudini e abitudini positive, conformi o coincidenti con il corretto orientamento di fede, che insistono principalmente sul condizionamento o il controllo della vista e della parola. Da un lato il ḥayāʾ è pudicizia dello sguardo: non vuol dire solo ripararsi dagli occhi altrui per conservare la propria integrità, elemento parziale e fortemente riduttivo della qualità in questione, ma anche, e prima ancora, impedire ai propri occhi di posarsi sugli altri indebitamente valicando i confini delle loro persone. Dall’altro lato ḥayāʾ è pudore nella parola: significa tacere per non urtare la sensibilità degli altri dicendo loro quel che li ferisce, e anche tacere per riserbo, per proteggere la propria integrità morale evitando sconcezze e scurrilità.

Cosa notevole, quest’idea islamica del ḥayāʾ, un insieme complesso di pudicizia dello sguardo e dallo sguardo, e di pudore verbale, si ritrova pari pari in un bell’esempio di trattatistica morale in lingua araba, L’affinamento dei costumi (Tahdhīb al-akhlāq) del filosofo e teologo cristiano Yaḥyā ibn ʿAdī (m. 363/974). Questo piccolo testo, grosso modo coevo alle fonti islamiche già considerate, si è creduto a lungo l’opera di un autore musulmano data la completa assenza di riferimenti religiosi cristiani50. Si legge appunto nell’Affinamento dei costumi che la modestia o ḥayāʾ appartiene alla famiglia della compostezza (waqār) e significa abbassare lo sguardo [cfr. Q25,30-31] e parlare poco per imbarazzo nei confronti di qualcuno [cfr. Q33,53]. Questa abitudine è lodevole purché non provenga da inettitudine o incapacità51.

Il lavoro di Yaḥyā ibn ʿAdī, nonostante la diversità di ispirazione religiosa e presupposti metodologici, richiama continuamente luoghi comuni della letteratura religiosa islamica sulla “modestia”: per esempio, dove afferma che l’assenza di ḥayāʾ “brucia il velo della decenza (ḥijāb al-ḥishma)”52 e rispecchia tanto la mancata cautela o discrezione (taḥaffuẓ) quanto la bramosia, la sete di possesso e la cupidigia (ḥirṣ, iḥtishād, sharra)53. Senza dubbio, tale coincidenza di idee si deve anche all’ambiente intellettuale che fa da sfondo al lavoro di questo autore cristiano, una Baghdad aperta e cosmopolita più che mai. Nondimeno, essa contribuisce ad avallare la comunanza di convincimenti tra differenti tradizioni culturali: la qualità detta in arabo ḥayāʾ si offre infine come un valore condiviso e condivisibile e per nulla affatto relegabile a “islamico”.

 

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1 Tra le pubblicazioni cartacee più diffuse in lingua araba, il breve Al-ḥayāʾ fī ḍawʾ al-Qurʾān al-karīm wa al-aḥādīth-al-ṣaḥīḥa di Salīm al-Hilālī, Al-Aḥsāʾ (SA): Maktabat Ibn al-Jawzī, 1408/1988 (scaricabile in http://www.ibtesamh.com/showthread-t_502891.html, consultato il 5/1/2017); e i più corposi ʿAlī ibn Qāsim ʿAlī, Al-ḥayāʾ al-muftaqad, Al-Qāhira: Maktabat Salsabīl, 1428/2008 (http://www.alukah.net/library/0/72694/ consultato il 5/1/2017), e ʿAbd Allāh ibn Jār Allāh ibn Ibrāhīm Āl Jār Allāh, Al-ḥayāʾ wa atharu-hu fī ḥayāt al-muslim, prefazione dell’autore datata 1410h, testo presente in rete dal 1430h, cfr. https://islamhouse.com/ar/books/209116 (consultato il 5/1/2017).

2 Sulla sedimentazione della traduzione “modestia” e affini nelle varie lingue europee, cfr. per es. Muhammad Ismail al Muqaddam, Fiqh al Haya’: Understanding the Islamic Concept of Modesty, Baltimore: International Islamic Publishing House, s.d., ed or. Al-ḥayāʾ khuluq al-Islām, Al-Qāhira: Dār al-ʿaqīda, s.d. Cfr. anche Shiu-Sian Angel Hsu, Modesty, “Encyclopaedia of the Qurʾān” (d’ora in poi = EQ), General Editor Jane Dammen McAuliffe, Georgetown University, Washington DC (consultato il 5/1/2017), con la bibliografia lì contenuta. Data la sedimentazione, la traduzione “modestia” ricorrerà spesso anche in questo saggio.

3 Cfr. per es. l’interessante contributo di Aisha Wood Boulanouar (University of Otago), The Notion of Modesty in Muslim Women’s Clothing: An Islamic Point of View, “New Zealand Journal of Asian Studies”, 8, 2 (2006), pp. 134-156, dove è appunto questione di ḥayāʾ.

4 A titolo di esempio, http://lifestyle.tiscali.it/moda/feeds/16/02/29/t_117_lapresse20160229T114339.html?moda (consultato il 5/1/2017). Segnalo in questa sede il II° “Turin Islamic Economic Forum” del 28 luglio 2015, Università di Torino, con una sessione dedicata all’abbigliamento “modesto”, http://www.tief2015.org/en/sul (consultato il 5/1/2017); e il simposio del 16 novembre 2016, New York University Steinhardt, Costume Studies MA Program, http://steinhardt.nyu.edu/art/costume/archive_events/meeting_through_modesty (consultato il 5/1/2017).

5 Questo è il significato primo di “modestia”; cfr. per es. http://www.treccani.it. In questa accezione, “modestia” corrisponde piuttosto all’arabo tawāḍuʿ o ittiḍāʿ.

6 Concetti che la lingua araba rende piuttosto con altre radici verbali, come w-s-ṭ, q-s-ṭ o ʿ-d-l.

7 Cfr. ad es. Hans Wehr, A Dictionary of Modern Written Arabic, Wiesbaden: O. Harrassowitz, 1961, pp. 220-221.

8 Cfr. Ibn Mukarram ibn Manẓūr (m. 711/1311) nel Lisān al-ʿArab (d’ora in poi = LA), s.v. ḥ-y-y (sul significato di ḥayāʾ in LA, vedi anche in seguito) e Ibn Fāris (m. 395/1004), Maqāyīs al-lugha, s.v. ḥ-y-y; per entrambi cfr. www.baheth.info (consultato il 5/1/2017). Vedi anche Edward W. Lane, An Arabic English Lexicon, London: Willams & Norgate, 1863, I, 681-682.

9 Mi permetto di notare che il presente saggio rientra in una ricerca in progress dedicata all’etica islamica della virtù. Tra i titoli già apparsi: The Gratitude of man and the gratitude of God. Notes on shukr in traditional Islamic thought, “Islamochristiana” (= ISCH) 38(2012), pp. 45-61; Return, repentance, amendment, reform, reconversion. A contribution to the study of tawba in the context of Islamic ethics, ISCH 39(2013), pp. 71-91; Réflexions sur la raḥma dans la tradition religieuse islamique, ISCH 41(2015), pp. 129-145; Ḥilm or “judiciousness”. A contribution to the study of Islamic ethics based on traditional sources, “Studia Islamica”, 110/1(2015), pp. 81-100; La pace nel Corano. Appunti di lavoro, “Italia Francescana”, 90, 2-3(2015), pp. 235-247; Silence and Speech Etiquette. A Contribution to the Study of Islamic ethics, “Annali di Ca’ Foscari”, serie orientale, 52(2016), pp. 7-29; Islamica moralia: appunti sulla gentilezza o rifq, “Studi Magrebini” (in corso di stampa); What God loves. The Qur’an and Islamic ethics, in Proceedings QLAMA. The Qur’an between Late Antiquity and Middle Ages. Form, Structure, Comparative Studies (in corso di stampa); Dalla tenda di Abramo alle dimore dei credenti: la sacralità dell’ospite nella tradizione islamica, in La valenza teologico-politica del Tempio, coll. “Politica e Religione”, Brescia: Morcelliana (in corso di stampa); Medietà e facilitazione. Note a margine di alcune fonti arabe islamiche contemporanee, “Annali di Ca’ Foscari”, serie orientale, 53(2017), in corso di stampa.

10 Su questa riscorrenza coranica vedi in particolare Manuela Marín, Corán XXIV, 60 y XXXIII, 33: sobre el tabarrun de la mujeres, en El Corán ayer y hoy. Perspectivas actuales sobre el islam. Estudios en honor del profesor Julio Cortés, coords. M. Hernando de Larramendi y S. Peña Martín, Córdoba, 2008, 215-231.

11 Cfr. Hsu, Modesty, EQ, con la bibliografia lì contenuta. Una definizione di ʿawra più o meno puntuale è offerta da pressoché tutti i commentari coranici attorno a Q 24,31 (per la letteratura esegetica consultata in questo saggio rimando qui e in seguito al sito http://www.altafsir.com). A titolo di esempio, valga l’analisi di Fakhr al-Dīn al-Rāzī (m. 606/1209), Mafātīḥ al-ghayb, commento a Q 24,30-31, dove la ʿawra viene esaminata secondo quattro tipi: quella dell’uomo con l’uomo, che va dall’ombelico al ginocchio esclusi; quella della donna con la donna, per lo più assimilata alla precedente; quella della donna per l’uomo, che distingue la donna sconosciuta o non legata da parentela, della quale l’uomo può vedere soltanto il volto e le mani fino al gomito, e la moglie o la schiava lecita, il cui unico tabù è l’organo sessuale; e infine la ʿawra dell’uomo per la donna, caso simile al precedente. L’autore ventila numerose eccezioni collegate a questioni mediche, circoncisione, eventuali testimonianze di adulterio o parto, etc. Nella contemporaneità, tratta dell’estensione della ʿawra ad es. Yūsuf al-Qaraḍāwī (n. 1926) nel rinomato Al-ḥalāl wa al-ḥarām fī al-Islām (ed. or. 1960), trad. ingl. The Lawful and the prohibited in Islam. Al-haram wal halal Fil Islam, Plainfield (IN): American Trust Publications, 1994, pp. 151-160; vedi anche Boulanouar, The Notion of Modesty, p. 135, e Eva Lapiedra, Espacios y tiempos de intimidad. La mujer en el ámbito de lo inexpugnable y sagrado, in Paisajes, espacios y objetos de devoción en el Islam, ed. F. Roldán y A. Contreras, Sevilla, 2017, 91-116, soprattutto pp. 93-101 (il saggio è reperibile in https://ieg.ua.es/es/documentos/pdi-integrante/separata-cap-eva-lapiedra.pdf).

12 Ma assai spesso ignorata nel discorso islamico contemporaneo sulla modestia, cfr. ancora Hsu, Modesty, EQ, e, tra gli altri, Asma Barlas, Believing women in Islam. Unreading patriarchal interpretations of the Qur’an, Austin: University of Texas Press, 2002, p. 158.

13 Cosa sottolineata da qualche autore contemporaneo, come l’egiziano Muḥammad Mutawallī al-Shaʿrāwī (m. 1418/1998) nel suo Khawāṭirī ḥawla al-Qur’ān al-karīm osserva che anche l’uomo come la donna è tenuto ad abbassare lo sguardo perché anche l’uomo come la donna è fonte di seduzione (fitna); commento a Q 25,30. Simile Ṭanṭāwī (m. 1431/2010), Al-Wasīṭ fī tafsīr al-Qur’ān al-karīm, commento a Q 25,30-31, con toni più sfumati.

14 Al-Qurṭubī, Jāmiʿ, commento a Q 25,30-31. Questa puntualizzazione è ripresa spesso dai commentatori; ricompare per esempio nel lavoro del moderno al-Shawkānī (m. 1250/1834), Fatḥ al-qadīr, commento a Q 25,30-31.

15 Jāmiʿ, commento a Q 25,30-31. L’autore procede con un corposo excursus giuridico sulla decenza nella frequentazione del ḥammām.

16 L’insistenza sulla capacità seduttiva dello sguardo, maschile e femminile, e quindi sulla rettitudine di chi tiene a freno la vista, si ritrova naturalmente dall’altra parte della dār al-Islām. Ad esempio al-Zamakhsharī (m. 538/1144), di origine persiana e mu‘tazilita, commenta l’esortazione al maschile - “di’ ai credenti” - affermando che lo sguardo viene prima della castità perché l’attività dell’occhio è più generale, perché abbraccia più cose e con ciò ha significato più ampio (awsaʿ); sull’esortazione al femminile scrive che lo sguardo “desidera l’adulterio” (cfr. bi-rīd al-zinā) […], cerca la turpitudine (ʾir al-fujūr), e resistervi è quasi impossibile”. Cfr. Al-kashshāf ʿan ḥaqāʾiq al-tanzīl, commento a Q 25,30-31.

17 Al-Qurṭubī, Jāmiʿ, commento a Q 25,30-31. Esistono molte versioni di questo racconto, accolte tra gli altri da al-Tirmidhī (m. 279/892), Abū Dāwūd (m. 275/889 ca.), al-Nasāʾī (m. 303/915), e Ibn Saʿd (m. 140/757 ca.) nelle Ṭabaqāt. Per i riferimenti alla letteratura tradizionistica cfr. qui e in seguito il già citato http://library.islamweb.net/hadith/hadithsearch.php. Sul desiderio delle donne e insieme sulla loro necessaria “modestia”, cfr. anche ʿAbd al-Malik ibn Ḥabīb (m. 238/852), Adab al-nisāʾ = Kitāb al-ghāya wa al-nihāya, ed. ʿAbd al Majīd Turkī, Bayrūt, Dār al-gharb al-islāmī, 1412/1992: “Il Profeta ha detto che il desiderio (shahwa) si divide in dieci parti: nove parti per le donne e una per gli uomini. E [il Compagno] ʿAmr ibn al-ʿĀṣ (m. 42/663 ca.) ha detto che il desiderio delle donne supera quello degli uomini tanto quanto il segno lasciato da un’ascia supera il segno lasciato da un ago; però Dio Altissimo le ha velate (satara-hunna) con la pudicizia (ḥayāʾ)”.

18 Al-Qurṭubī, Jāmiʿ, commento a Q 25,30-31, sull’autorità di Abū Hurayra (m. 58/678 ca.). Questo detto è ripreso tra gli altri da Aḥmad ibn Ḥanbal (m. 241/855), Abū Bakr al-Bayhaqī (m. 458/1066) e Ibn al-Jawzī (m. 654/1256).

19 Cfr. ad es. Lila Abu-Lughod, Modesty Discourses: Overview, “Encyclopedia of Women & Islamic Cultures”, General Editor Suad Joseph (consultato 5/1/2017).

20 Che forse – scrive tra gli altri al-Rāzī, Mafātīḥ, commento a Q 28,25 - era la maggiore delle due, e forse si chiamava Safūrā, o Safrā, o Sāfūrā; questo autore conclude: “[...] ma nel Corano non c’è nulla che indichi questi dettagli”.

21 Al-Ṭabarī (m. 310/923), Jāmiʿ al-bayān ʿan taʾwīl al-Qurʾān, commento a Q 28,25, da varie autorità tra le quali ʿUmar ibn al-Khaṭṭāb (m. 23/644). Simili al-Zamakhsharī, Kashshāf, al-Rāzī, Mafātīḥ, e al-Qurṭubī, Jāmiʿ, sempre commento a Q 28,25.

22 Kashshāf, commento a Q 28,25.

23 Mafātīḥ, commento a Q 28,25. L’autore aggiunge che la pudicizia della donna traspare anche dall’invito che essa fece a Mosè, attribuito al padre – si ricordi: “Mio padre ti invita [...]”: “già l’uomo nobile (al-karīm) ha pudore di invitare altri alla propria mensa – nota al-Rāzī – figuriamoci dunque quanto pudore può averne una donna”.

24 Sulla donna che fece giuramento di fedeltà a Muhammad mettendosi una mano davanti al viso “per modestia” (ḥayāʾan), cfr. per esempio Ibn anbal, Musnad, musnad al-ʿashara al-mubasshsharīn bi-l-janna, n. 24613, da ʿĀʾisha (m. 58/678). Sul pudore di Fāṭima (m. 11h) figlia del Profeta, timorosa (cfr. istaat) di chiedere al padre, peraltro da parte del marito ʿAlī (m. 40/661), un servo che la aiutasse nelle faccende domestiche, vedi invece ʿAbd al-Malik ibn Ḥabīb (m. 238/852), Adab al-nisāʾ, pp. 161-162 (n. 42), senza citazione del garante. Cfr. ibidem, pp. 156-158 (n. 37) dove la sposa vergine dichiara di provare vergogna nel parlare con il marito.

25 Al-Bukhārī, Ṣaḥīḥ, kitāb al-adab, n. 5664, da Abū Saʿīd al-Khudrī (m. 74/693-4); e Ibn Abī al-Dunyā (m. 281/894), Makārim al-akhlāq, ed. Majdī Fatḥī al-Sayyid Ibrāhīm, Maktabat al-Sāʿī, Būlāq s.d., pp. 36-37, n. 81 (su quest’opera vedi anche in seguito). Altre versioni più tardive sostituiscono alla vergine (ʿadhrāʾ) la donna giovane (fatāt), cfr. ad es. Ibn ʿAsākir (m. 571/1176), Taʾrīkh Dimashq, ḥarf al-alif, dhikr man ismu-hu Aḥmad […], n. 2197. La modestia del Profeta compare anche nei commenti a Q 17,1, secondo i quali (ad es. al-Ṭabarī, Jāmiʿ, sull’autorità di Anas ibn Malik, m. 91/709 ca.), il Profeta, ricevuto infine l’obbligo di cinque preghiere al giorno, non chiese riduzioni dicendo a Mosè: “Provo vergogna nei confronti del mio Signore” (istaḥaytu min rabbī). Mi permetto di citare qui Il viaggio notturno e l’ascensione del Profeta nel racconto di Ibn ʿAbbās, a mia cura, Torino: Einaudi, 2010, p. 43.

26 Modestia che sarebbe la “causa della rivelazione” del versetto medesimo. Cfr. per esempio al-Ṭabarī, Jāmiʿ, e Ibn Kathīr (m. 774/1373), Tafsīr, commento a Q 33,53.

27 Ṣaḥīḥ, kitāb aḥādīth al-anbiyāʾ, bāb ḥadīth al-Khiḍr maʿa Mūsā, n. 3175, da Abū Hurayra. Cfr. Ibn anbal, Musnad, musnad al-ʿashara al-mubasshsharīn bi-l-janna, n. 10451, dallo stesso garante. Questo racconto figura spesso nei commenti di Q 33,69.

28 Ta’rīkh, n. 184 da Ubayy ibn Kaʿb (m. tra il 19/640 e il 35/656); piuttosto simile, ma con l’impiego di istiḥyāʾ, Ibn Abī al-Dunyā, Kitāb al ʿuqūbāt, ed. Muḥammad Khayr Ramaḍān Yūsuf, Bayrūt: Dār Ibn Ḥazm, 1416/1996, pp. 69-70 (n. 102), dallo stesso garante.

29 Cfr. al-Tirmidhī, Jāmiʿ, kitāb al-daʿawāt, abwāb al-manāqib, n. 3752, da Anas ibn Malik. Sempre ʿUthmān è definito “pudico e riservato (ḥayī sittīr) tanto che gli angeli si vergognano di fronte a lui (yastaḥī min-hu)” in un detto di Muhammad ripreso da Ibn Ḥanbal, Faḍāʾil al-ṣaḥāba, n. 364 sull’autorità di ʿĀʾisha. Sul binomio ḥayī sittīr applicato alla divinità vedi in seguito. Sull’uomo che non si vergogna (lā yastaḥī) d’essere dolce e remissivo con la moglie, come lo fu ʿAlī (m. 40/661), vedi invece Ibn Ḥabīb, Adab al-nisāʾ, p. 161-162 (n. 42).

30 Sul “modello divino” cfr. innanzitutto Q 16,60: “Quelli che non credono nell’altra vita sono un esempio (mathal) del male, mentre l’esempio eccelso (al-mathal al-aʿ) è quello di Dio, Egli è il Potente, il Saggio”. Sull’esortazione profetica a fare propri “i caratteri di Dio” (akhlāq Allāh) particolarmente nel sufismo rimando a Francesco Chiabotti, Dottrina, pratica e realizzazione dei Nomi Divini nell’opera d’Abd al-Karîm al-Qushayrî, in La preghiera come tecnica. Una prospettiva orientale, Divus Thomas 54 (2009) pp. 66-93, specialmente 78-82.

31 Come nel caso della gratitudine, della misericordia, dell’assennatezza, della capacità di recessione, etc. Per questo mi permetto nuovamente di rimandare ad altri miei lavori dedicati all’etica della virtù, già citati sopra. È vero tuttavia che la rad. ḥ-y-y non origina un Nome.

32 Al-Nasāʾī, Al-sunan al-ṣughrā, n. 403, da Yaʿlā ibn Umayya; cfr. anche al-Bayhaqī (m. 458/1066), Al-sunan al-kubrā, jummāʿ abwāb al-istiṭāba, bāb faḍl al-muḥdith, n. 884.

33 Abū Dāwūd al-Sijistānī, Kitāb al-zuhd, ed. Abū Tamīm Yāsir ibn Muḥammad e Abū Bilāl Ghanīm ibn Ghanīm, Al-Qāhira: Dar al-mishkāt, 1414/1993, p. 340, n. 413.

34 Abū Dāwūd, Kitāb al-zuhd, p. 339, n. 412, da Yūnus ibn albas.

35 Al-mashyakha al-baghdādiyya, Al-juzʾ al-thāmin, in http://library.islamweb.net/hadith/display_hbook.php?bk_ no=4148&hid=43&pid=294535 (consultato il 5/1/2017).

36 Cfr. al-Bazzār, Al-Baḥr al-zakhkhār bi-musnad al-Bazzār, musnad Rabʿī ibn Hudhayfa, n. 2557.

37 Makārim al-akhlāq, ed. Majdī Fatḥī al-Sayyid Ibrāhīm, Maktabat al-Sāʿī, Būlāq s.d. Sulle peculiarità di questo trattato rimando a J.A. Bellamy, The Makārim al-Akhlāq by Ibn Abī ’l–Dunyā (A Preliminary Study), “The Muslim World” 53(1963), pp. 106-119.

38 Rispettivamente: Dhikr al-ḥayāʾ wa mā jāʾa fī faḍli-hi, pp. 34-36 (nn. 72-80); Al-ḥayāʾ min shamāʾil al-nubuwwa, pp. 36-39 (nn. 81-89); e Ḥaqq al-ḥayāʾ, pp. 39-41 (nn. 90-95).

39 Sulla modestia come virtù capitale (raʾs al-makārim) vedi anche Ibn Wahb (m. 197/813), Al-Jāmiʿ fī al-ḥadīth, bāb al ʿuzla, n. 488, sempre da ʿĀʾisha.

40 Ibn Abī al-Dunyā, Makārim al-akhlāq, p. 37 (n. 83), sull’autorità di Ibn Masʿūd (m. 33/653). Il detto è accolto ripetutamente da al-Bukhārī, Ṣaḥī, ad es. kitāb al-adab, bāb al-ḥayāʾ, n. 5682; ed è citato e commentato anche da LA, s.v. ḥ-y-y.

41 Lo si deduce a contrario visto che “ la scarsità di modestia è miscredenza (kufr)”; Makārim, p. 38 (n. 84) da Saʿīd b. al-Musayyab (m. 94/713). Cfr. p. 35 (n. 72): “La modestia viene dalla fede (o fiducia, īmān), e la fede sta in paradiso; l’oscenità (badhāʾ) viene dall’avversione (o antipatia, jafāʾ), e l’avversione sta all’inferno”; sulla stessa linea ibidem (nn. 73 e 75).

42 Sulla modestia come istinto, è interessante quel che riporta LA, s.v. ḥ-y-y: i Compagni di Muhammad, udito da lui che il ḥayāʾ è una branca (shuʿba) della fede, gli chiesero come fosse possibile che la modestia, un impulso naturale (gharīza), fosse parte della fede, un’acquisizione (iktisāb).

43 Makārim, pp. 37-38 (n. 85); cfr. pp. 38-39 (nn. 87 e 88) e anche p. 35 (n. 76).

44 Makārim, p. 39 (n. 90). L’autore riprende questo detto anche in un’altra opera, il Kitāb al-waraʿ, bāb al-waraʿ fī al-naẓar, n. 98.

45 Makārim, pp. 39-40 (n. 91), da Sa‘īd ibn Yazīd. Sempre di intendimento generale, la seguente affermazione del Profeta: “Il ḥayāʾ in qualunque cosa si trovi la abbellisce, la sconcezza (fuḥsh) in qualunque cosa si trovi la imbruttisce; Makārim, p. 36 (n. 77), da Anas ibn Malik (m. 91/709 ca.).

46 LA, s.v. ḥ-y-y. e Lane, Lexicon, vol. I, pp. 2204-2205.

47 Makārim, p. 35 (n. 74), da Abū Umāma (m. 81/700 ca.).

48 Makārim, p. 37 (n. 82). Cfr. il ricordo di ʿĀʾisha, p. 36 (n. 80).

49 Makārim, p. 38 (n. 86).

50 Cfr. ad es. Khalil Samir, Le Tahīb al-alāq de Yayā b. ‘Adī (m. 974) attribué à Ğāḥiẓ et à Ibn ‘Arabī, “Arabica”, 22(1974), pp. 111-138; e Id., Nouveaux renseignements sur le Tahīb al-alāq de Yayā b. ‘Adī e sur le Taymūr akhlāq 290, “Arabica”, 26(1979), pp. 158-178. L’edizione critica del Tahdhīb al-akhlāq si deve allo stesso Khalil Samir, Markaz al-turāth al-‘arabī al-masīḥī, Bayrūt: CEDRAC - Al-Qāhira: Patristic Center, 1994. I riferimenti che seguono non sono tratti dall’edizione critica appena citata ma da una versione riveduta, cortesemente fornitami dall’editore, in corso di stampa con traduzione italiana a mia cura (Roma: Patrimonio Culturale Arabo Cristiano - PCAC).

51 Yaḥyā ibn ʿAdī, Tahdhīb al-akhlāq. nn. 254-255. Sul riferimento all’inettitudine e all’incapacità, cfr. sopra il dialogo tra ʿImrān ibn Ḥuṣayn e al-ʿAlāʾ ibn Ziyād, contenuto in Makārim, pp. 37-38 (n. 85).

52 Tahdhīb al-akhlāq, n. 352. Cfr. anche nn. 108, 187 e 377.

53 Tahdhīb al-akhlāq, nn. 61-68.