El sentido visible de lo sagrado: relicarios antropomórficos en la Sicilia de la Contrarreforma
The visible sense of the sacred: anthropomorphic reliquaries in Counter-Reformation Sicily
Maurizio Vitella
Università degli Studi di Palermo. Italia
ORCID: 0000-0001-7199-0759
maurizio.vitella@unipa.it
Resumen:
El artículo ofrece una revisión de los relicarios antropomorfos realizados en Sicilia entre la segunda mitad del siglo XVI y finales del XVII. Son obras que interpretan los peculiares propósitos del arte de la Contrarreforma, orientadas estratégicamente a implementar una nueva evangelización encaminada a disipar los problemas surgidos tras la Reforma Protestante. La contribución tiende a resaltar las características formales y decorativas de los artefactos, a menudo caracterizadas por un marcado realismo, en algunos casos acentuado por el color de los rostros, rematados con colores que simulan la tez.
Palabras clave:
Relicarios antropomorfos; mobiliario eclesiástico; orfebrería sagrada; arte de la contrarreforma; artes decorativas.
Abstract:
The article presents a review of anthropomorphic reliquaries made in Sicily between the second half of the 16th century and the end of the 17th century. These are works that interpret the peculiar purposes of Counter-Reformation art, strategically aimed at carrying out a new evangelization to dispel the problems that arose as a result of the Protestant Reformation. The contribution highlights the formal and decorative characteristics of the artifacts, often characterized by a strong realism, sometimes accentuated by the coloring of the faces, finished with hues simulating flesh tones.
Keywords:
Anthropomorphic reliquaries; ecclesiastical furnishings; sacred goldsmithery; art of the Counter-Reformation; decorative arts.
Fecha de recepción: 24 de enero de 2024.
Fecha de aceptación: 13 de febrero de 2024.
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© 2024. Maurizio Vitella. Este es un artículo de acceso abierto distribuido bajo los términos de la licencia Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike 4.0. International License (CC BY-NC-SA 4.0). |
L’esaltazione delle reliquie dei santi, attraverso la loro protezione e la contestuale esibizione all’interno di artistiche custodie, costituisce una delle principali azioni promosse dalla Chiesa controriformata. La rinnovata religiosità scaturita dalle riflessioni post tridentine trovò nell’oreficeria sacra un’immediata e significativa alleata, utile alla propaganda che la Chiesa promosse contro gli attacchi del protestantesimo. In Sicilia tale pastorale ebbe grande seguito, come attestano le numerose suppellettili prodotte a ridosso del 1563, anno della chiusura del Concilio di Trento, dove il 3 dicembre fu promulgato il decreto Della invocazione, della venerazione e delle reliquie dei santi e delle sacre immagini1. Quanto argomentato nella disposizione conciliare diede vita ad un vivace dibattito che scaturì nella pubblicazione di trattati a carattere precettistico2, diffusi anche con l’intento di disciplinare l’attività artistica. In questo clima, venne proposta una nuova evangelizzazione che trovò, anche nella produzione di suppellettili liturgiche, il modo per attuare puntuali strategie di persuasione e di difesa contro gli attacchi dell’ideologia riformata. Non stupisce, dunque, l’ampia produzione, cui si assiste in questo momento storico, di magnifiche custodie atte a serbare, ma anche esibire, i preziosi resti mortali dei santi, in risposta alle teorie protestanti secondo cui “il rispetto che si prodigava alle loro reliquie – scrive Émile Mâle – era idolatria bella e buona”3. Pertinente a questa temperie è la volontà della committenza ecclesiastica controriformata, orientata a dare valore al culto per i santi e alla venerazione dei loro resti mortali. La Sicilia, riconquistata alla fede cattolica dai Normanni, terra di confine e spesso teatro di gravi attacchi pirateschi attuati da flotte di “infedeli”, si fece interprete delle istanze della Controriforma e la Chiesa locale, insieme ai nuovi ordini religiosi insediatisi nell’Isola, attuò una rinnovata azione pastorale che ebbe nell’arte una forte alleata. Ecco, dunque, la temperie storico culturale che sottende alla variegata produzione di suppellettili, di dipinti, di reliquiari, di tutto quanto potesse essere utile a docere, delectare, movere, prendendo in prestito, per una rinnovata catechesi, le regole fondamentali della retorica e mettendo in atto un programma comunicativo che si manifesta in quell’aspetto trionfalistico che è l’arte barocca.
La creazione di custodie reliquiarie riproducenti la fisionomia, seppur idealizzata, del santo di cui ospitano le sacre spoglie, nella produzione orafa cristiana è in uso da tempi remoti. Di tipologia antropomorfa, questi contenitori sono identificati come reliquiari a busto, o a statua, e compaiono documentati già dal X secolo4. In Sicilia l’opera più conosciuta e che si pone, per l’oreficeria sacra isolana, come aulico prototipo è sicuramente il busto di Sant’Agata, patrona di Catania, realizzato dal senese Giovanni di Bartolo nel 13765.
Costituiscono produzioni cronologicamente prossime agli anni del Concilio di Trento il busto di San Cataldo (Figura 1), oggi al Museo Diocesano di Catania6, e quello che custodisce le reliquie di San Vito (Figura 2) della Chiesa Madre di Regalbuto7, entrambi attribuiti a Paolo Guarna, console della maestranza degli orafi e argentieri di Catania nel 1572, 1575 e 15788. L’opera del Museo Diocesano di Catania esprime magistralmente quella cultura di transizione che vede convivere eredità del passato, come l’austera espressione del volto, con soluzioni più aggiornate come il realismo dei capelli e della barba del santo e il modulo di ornato del manto realizzato a piccole maglie romboidali come proposto dalla produzione tessile di fine Cinquecento. Ancora connubio di retaggi classicisti e concessioni a realtà manieriste caratterizzano il busto della Matrice di Regalbuto, dove le protomi leonine dell’attacco delle maniche coesistono con la realistica acconciatura, ravvivata da dorature che impreziosiscono alcune ciocche, e con la particolare stuccatura e pittura del volto e l’insolito inserimento di occhi vitrei. Interventi, questi, individuati da Maria Concetta Di Natale9 come verosimilmente posteriori alla realizzazione del manufatto.
Figura 1. Paolo Guarna, reliquiario a busto di San Cataldo, seconda metà del XVI secolo, Catania, Museo Diocesano, n. inv. 131559.
Figura 2. Paolo Guarna, reliquiario a busto di San Vito, seconda metà del XVI secolo, Regalbuto, Chiesa Madre.
Di poco successivo ai busti del Guarna è il reliquiario antropomorfo di Santa Vittoria (Figura 3), realizzato tra il 1592 e il 1593 dall’argentiere Salvatore Lancella10, esposto al Museo Diocesano di Agrigento. Commissionato da don Girolamo Zanghi11, decano del capitolo della Cattedrale, ospita i resti mortali di una delle compagne di Sant’Orsola martirizzate a Colonia dagli Unni. Nell’atto di commissione, rogato dal notaio Lorenzo Isgrò, trascritto da Alberto Mannino12, si evince che il Lancella doveva eseguire l’immagine di S. Victoria con la testa e le mano di rame e tutto il resto in sino alla cintura di plancia di argento della bulla di Palermo la quali plancia habbia di essiri ben battuta e sottili quanto più si può e che non habbi di pissare più di libre venti di piso d’argento. La faccia con le mano habbiano di essiri ben coloriti ad oglio con la incarnatura di finissimi coluri e li occhi vayri e con la testa con bella gratia che guardi el populo simili all’immagine di Sant’Agata in Catania. Indicazioni, queste, rispettate dall’orafo che realizzò un pregevole manufatto dalla caratteristica fisionomia, resa maggiormente realistica dalla fossetta del mento particolarmente pronunciata. Gli occhi spalancati e rivolti al cielo contribuiscono all’aspetto estatico, preludio a quella espressione profondamente ispirata comune a molte soluzioni iconografiche promosse dall’arte controriformata. L’opera nel 2018 è stato oggetto di un intervento di restauro conservativo presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, operazione che ha contemplato la reintegrazione delle lacune pittoriche del volto e delle mani13.
Figura 3. Salvatore Lancella, reliquiario a busto di Santa Vittoria, 1592-1593, Agrigento, Museo Diocesano.
Un altro manufatto, che condivide un riconosciuto primato nell’ambito dell’oreficeria barocca siciliana, è la “grandiosa statua di Santa Lucia di Siracusa” (Figura 4), opera che “vive dignitosamente nell’accademismo classicheggiante gaginesco”14. Il notevole reliquiario, commissionato dai Giurati della cittadina aretusea il 12 settembre 159815, venne realizzato a Palermo dall’argentiere Pietro Rizzo. L’opera, dalla spiccata identità formale che risente di retaggi cinquecenteschi legati a stilemi compositivi della bottega dei Gagini, presenta il volto della santa caratterizzato dall’espressione austera e dai tratti idealizzati, amplificati dall’incarnato policromo, che ben si armonizzano con il ricercato atteggiamento solenne dell’intera figura. Il simulacro riproduce le fattezze umane di un’austera fanciulla vestita con una lunga tunica stretta in vita su cui si adagia un manto dai drappeggi ondulati. Per queste peculiarità l’opera d’arte risponde a canoni stilistici ben definiti: se le sembianze fisionomiche denotano una palese adesione alle istanze classiciste, la postura e alcuni dettagli decorativi rievocano soluzioni tardo manieriste. Evidente la trasposizione in prezioso metallo delle formule statuarie care al Cinquecento siciliano.
Figura 4. Pietro Rizzo, reliquiario a statua di Santa Lucia, 1598-1599, Siracusa Cattedrale.
Ancora tra i busti censiti nel territorio siciliano che presentano il volto definito con cromie riproducenti il rosaceo colorito dell’incarnato segnaliamo quello di Santa Barbara (Figura 5) dell’eponima chiesa di Paternò, realizzato nel 1621 dall’argentiere palermitano Onofrio Merendino16. Come ha osservato Grazia Spampinato, l’orafo “nella realizzazione del reliquiario volle raffigurare tutte le doti della giovane Barbara: l’eleganza e la femminilità della donna, la signorilità e la nobiltà della sua discendenza, la forza e la combattività della sua fede in Cristo”17. L’argentiere Merendino, esponente di una famiglia di orafi a cui appartenne il più famoso Michelangelo autore dell’urna di Santa Ninfa della Cattedrale di Palermo18, nel realizzare il busto che custodisce le reliquie della martire di Nicomedia, tenne conto della tradizione, ampiamente consolidata, che aveva nell’antico, ossia nella scultura celebrativa dell’età imperiale, il modello ispiratore.
Figura 5. Onofrio Merendino, reliquiario a busto di Santa Barbara, 1621, Paternò, chiesa di Santa Barbara.
Altro interessante esemplare antropomorfo è il reliquiario di Santa Margherita (Figura 6) del Museo Diocesano di Catania, datato 1634 e attribuito ad argentiere palermitano, per quanto non sia presente il punzone della maestranza del capoluogo19. L’elegante custodia, posta su un basamento con piedi a voluta sormontati da teste di putti alati, presenta il busto della santa forgiato in lamina d’argento a simulare una veste drappeggiata, con al centro il ricettacolo che permetteva la visione della reliquia. Il volto, di aspetto giovanile ed espressione incantata, anche in questo caso si caratterizza per l’impronta realistica che scaturisce dalla policromia dell’incarnato e dell’acconciatura: lo sguardo fisso, l’accenno di un sorriso, le guance leggermente imbolsite e i capelli biondi ondulati che scendono sulla nuca, spargendosi in brevi ciocche anche sulle spalle, conferiscono all’opera un tono di regale eleganza, sottolineato dalla corona.
Figura 6. Argentiere palermitano (attribuito), reliquiario a busto di Santa Margherita, 1634, Catania, Museo Diocesano, n. inv. 131558.
Ancora a fattezze realiste, proponendo il volto di un vivace fanciullo, si colgono nel reliquiario a busto di San Vito (Figura 7) del Museo Diocesano di Caltagirone20. L’opera custodisce un frammento delle spoglie mortali del giovane campione della fede dei primi secoli cristiani. È rappresentato, secondo la tradizionale iconografia, con il solito aspetto giovanile che nel nostro caso assume dei tratti marcatamente fanciulleschi resi con particolare realismo espressivo. Indossa un corpetto, da cui fuoriescono le maniche a sbuffo della camicia, dal collo con bordi ricamati. La cesellatura dell’abito imita un tessuto operato caratterizzato da un modulo disegnativo “a mazze” con la disposizione cadenzata quasi a scacchiera dell’elemento decorativo, riprendendo così le stoffe in uso nella prima metà del Seicento. A questo periodo rimanda anche l’efficace modellato, realizzato in ambiente palermitano come attesta il marchio con l’aquila a volo basso che si rileva sull’opera. Conferma anche l’esecuzione del reliquiario nel capoluogo dell’Isola l’affinità compositiva che si può cogliere con i busti in argento dei Santi Lorenzo e Rosalia del Museo Diocesano di Palermo, realizzati da Bartolomeo Ferruccio nel 162621, con i quali si nota particolare analogia nella trattazione dell’arcata sopraccigliare e dei bulbi oculari, nonché nella cesellatura della chioma resa ancora più realistica, nel nostro caso, dalla parziale doratura dei corti ricci. L’analogia con i busti del Museo Diocesano del capoluogo isolano suggerisce anche una datazione del nostro reliquiario entro il primo trentennio del XVII secolo, momento storico in cui la Chiesa infervorata dai precetti controriformati favoriva la diffusione del culto delle reliquie promuovendo, come attestano gli esemplari sino adesso analizzati, la realizzazione di pregevoli contenitori.
Figura 7. Bartolomeo Ferruccio (attribuito), reliquiario a busto di San Vito, terzo decennio del XVII secolo, Caltagirone, Museo Diocesano.
Il busto argenteo di Santa Venera di Acireale (Figura 8), commissionato all’argentiere messinese Mario D’Angelo, consegnato nel luglio del 165522, è tra le più interessanti testimonianze ancora caratterizzate dalla coloritura degli incarnati. Questa fu effettuata dal pittore acese Giacinto Platania23, già coinvolto nella genesi della preziosa scultura quale esecutore del modello grafico24. La statua era stata concepita con la funzione di custodire le sacre spoglie della Patrona, ma durante l’esecuzione dei lavori si resero conto che non era agevole, né probabilmente opportuno, inserire i preziosi frammenti ossei all’interno del manufatto, ragion per cui vennero realizzati un medaglione25 e altre custodie antropomorfe26.
Figura 8. Mario D’Angelo, busto argenteo di Santa Venera, 1655, Acireale, Cattedrale.
Il busto di Santa Venera si qualifica per l’elegante resa d’insieme che culmina nell’idealizzata fisionomia della Santa il cui soave aspetto ammalia i devoti. L’aspetto giovanile, la leggera torsione del capo, la policromia dell’incarnato, accentuato sulle guance con una leggera velatura rosacea, sono frutto di una studiata ideazione, che, come detto, le cronache tramandano essere stata suggerita dal pittore Giacinto Platania27, ma che risente di un’antica, quanto consolidata, tradizione che rispecchia la produzione pittorica. L’intensa intonazione fisiognomica ricorda l’efficace identità, tra l’estatico e il sensuale, che il pittore napoletano Andrea Vaccaro (Napoli, 1604-1670) soleva donare alle sue figure femminili, sante e Madonne. Il viso, umano e rassicurante, si qualifica per la seducente fisionomia che, attraverso il profilo limpido e “la purezza delle linee, dona alla statua un aspetto di bellezza nostrana, come se la modella fosse stata una giovane siciliana”28.
Completiamo questo contributo su i reliquiari antropomorfi con la statua di San Nicasio di Caccamo (Figura 9), realizzata dall’argentiere palermitano Giovanni Luna nel 168429. Per onorare ed evidenziare il valore salvifico dei preziosi resti di San Nicasio Camuto della famiglia Burgio si volle creare un’apposita custodia che ne riproducesse le fattezze umane, idealizzandole in quelle di un austero e nobile Cavaliere di Malta. In tal senso l’opera d’arte risponde a canoni stilistici ben definiti: se le sembianze fisionomiche denotano una palese adesione alle istanze realiste della temperie seicentesca, la postura e alcuni dettagli decorativi rievocano soluzioni tardo manieriste. Stilemi, questi, dedotti dalla statua bronzea di Carlo V che Scipione Li Volsi realizzò nel 163130, e dalla figura di Coriolano ricamata negli arazzi un tempo nel castello di Caccamo e oggi al Museo Civico di Termini Imerese realizzati, su disegno dell’architetto del Senato di Palermo Vincenzo La Barbera31. Chiunque sia stato l’ideatore dell’opera, è certamente una personalità a conoscenza del dibattito artistico culturale siciliano d’inizio Seicento che compendia eredità cinquecentesche con più aggiornate sintassi barocche. Di certo, nei tratti fisiognomici del Santo, nell’accurata realizzazione dei dettagli, traspare un’evidente retaggio del naturalismo, ampiamente praticato in Sicilia, dopo il breve soggiorno di Caravaggio, da numerosi artisti suggestionati dalla lezione del grande maestro lombardo. Il prezioso manufatto, che assolve anche una funzione processionale, rappresenta San Nicasio, invocato a protezione della peste e della scrofolosi, in vesti militari con armatura, spada, calzari, elmo piumato e mantello. Ripreso a figura intera e con una postura eretta, calpesta vittorioso l’orrenda immagine simboleggiante il morbo funesto. Quest’ultima riproduce, attraverso un egregio lavoro d’intaglio, la personificazione della peste, a ricordo dell’intercessione del santo per la guarigione dall’orrenda epidemia che colpì la città di Caccamo nel 1624. Come spesso avviene, l’interpretazione figurativa del male assume simboliche sembianze declinate con una rappresentazione, tra zoomorfa e antropomorfa, la cui visione incute angoscia e terrore. Sottomessa ai piedi del Santo, l’orrida immagine rimarca l’invincibilità della fede e come le virtù taumaturgiche delle reliquie proteggono contro ogni avversità, del fisico e dell’anima. Oggi questo capolavoro dell’oreficeria palermitana del Seicento, dopo l’accorto restauro, è stato restituito alla comunità caccamese, con la certezza che alla funzione processionale sarà congiunta un’attenta salvaguardia. Anche quest’opera, insieme alle altre qui analizzate, conferma l’abilità delle maestranze orafe siciliane a saper interpretare i decreti della Chiesa controriformata che, nel voler rendere visibile l’invisibile, creando un tangibile legame tra terreno e ultraterreno, ha saputo strategicamente mettere in atto una nuova evangelizzazione consona alle determinazioni espresse dai Padri tridentini.
Figura 9. Giovanni Luna, reliquiario a statua di San Nicasio, 1684, Caccamo, chiesa della SS. Annunziata.
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1. Sulla produzione artistica post tridentina imprescindibile opera bibliografica è il volume di Mâle, 1984. Recenti manifestazioni espositive dedicate al tema dell’arte della Controriforma hanno prodotto interessanti cataloghi. Si segnalano Cattoi y Primerano 2014; Bernardini y Lolli Ghetti 2014.
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9. Di Natale 2012, 22.
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22. Diego Rizzo è il più noto di una prolifica famiglia di argentieri attivi nella Città dello Stretto, documentato dal 1618 al 1669. Di Giacomo 2014, 524.
23. Altri tari 24 à complimento di dette onze 32·6·16· foro per voi d’ordine nostro pagate a Giacinto Patania per compra di colori per l’incarnatura della faccia et mani di detta statua […] In Jaci li 2 di Augusto 8.æ Ind. 1655. Trovato 2017, 126.
24. Trovato 2017, 123.
25. Di Natale 2017, 29.
26. Nel 1684 vennero realizzati due reliquiari a braccio e un reliquiario a gamba; nel 1776 venne realizzato un altro reliquiario a gamba. Vitella 2017b, 88-89.
27. Trovato 2017, 123, 126.
28. Pennisi Grimaldi 1958, 77.
29. Vitella 2016a, 83-87; 2016b, 257-262.
30. Pettineo y Ragonese 2007, 149-150.
31. D’Amico 2001, 204-221.