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Núm. 49 (2022) ■ 27-58 ISSN: 0210-7716 ■ ISSN-e 2253-8291 https://dx.doi.org/10.12795/hid.2022.i49.2 Recibido: 24-1-2022; Aceptado: 28-2-2022; Versión definitiva: 6-5-2022 |
Gabriele Archetti
Università Cattolica del Sacro Cuore
gabriele.archetti@unicatt.it | https://orcid.org/0000-0002-4706-8286
Riassunto: La storia della vite e del vino nel Medioevo europeo è caratterizzata da una ricca produzione storiografica. Nel saggio si presenta il caso italiano della Lombardia orientale e, in modo particolare, della piccola regione della provincia di Brescia nota col nome di Franciacorta. Posta nell’area collinare morenica tra i fiumi Mella e Oglio, naturalmente vocata alla coltura viticola, la Franciacorta trova numerose attestazioni documentarie sin dall’alto medioevo e registra la presenza di vigne specializzate e la precoce introduzione di vitigni di importazione. Inoltre, nel variegato panorama vinicolo, si documenta la produzione del cisiolo, un fermentato brioso e dal colore paglierino, ottenuto attraverso un’abile tecnica di vinificazione. Celebrato dal grande agronomo cinquecentesco Agostino Gallo, questo vino può forse essere ritenuto lo storico nobile antenato dell’odierno Franciacorta, lo spumante che reca il nome dalla terra di origine.
Parole chiave: vite; vigneto; viticultura; vino; Lombardia; Franciacorta.
Abstract: The history of the vine and wine in the European Middle Ages is characterized by a rich historiographic production. The Italian case of eastern Lombardy and, in particular, the region of the province of Brescia known as Franciacorta is presented below. Located in the morainic hilly area between the Mella and Oglio rivers, naturally suited to viticulture, Franciacorta has found numerous documentary evidence since the early Middle Ages and records the presence of specialized vineyards and the early introduction of imported vines. Furthermore, in the varied wine panorama, the production of cisiolo, a lively and straw-colored fermented wine, obtained through a skilful winemaking technique, is illustrated. Celebrated by the great sixteenth-century agronomist Agostino Gallo, this wine may perhaps be considered the historic noble ancestor of the current Franciacorta, the sparkling wine that bears its name from the land of origin.
Keywords: Grapevine; Vineyard; Viticulture; Wine; Lombardia; Franciacorta.
Sulla vite e sul vino si è scritto e si scrive molto. Tra i temi storiografici, infatti, quello della vitivinicoltura medievale italiana rappresenta molto bene lo sviluppo degli studi agrari negli ultimi decenni[1]. Ciò vale anche per il territorio lombardo della Franciacorta, la zona di colline moreniche della provincia di Brescia compresa tra i fiumi Mella e Oglio (figg. 1-2), che, in poco più di mezzo secolo, ha conosciuto una crescita economico-produttiva senza precedenti, al punto da diventare un’area esemplare degna di studio. Le indagini documentarie, infatti, hanno messo in luce non solo come la coltura della vite abbia radici molto antiche e tali da confermarla come una regione altamente “vocata” –interessanti i ritrovamenti e la schedatura moderna di vitigni storici prefillosserici[2]–, ma rilevante anche per le varietà vinicole coltivate sin dall’alto e del pieno medioevo[3]. Seguire questi processi colturali e produttivi è lo scopo di questo contributo, illustrativo di una vicenda che vanta ormai più di mezzo secolo e che nel 1967 ha ottenuto, grazie al decreto del Presidente della Repubblica, il riconoscimento di qualità mediante il “Disciplinare di produzione dei vini a denominazione controllata e garantita detti Franciacorta”.
La vite è attestata in area lombarda fin dai tempi preistorici, dove tra i reperti fittili dei laghi subalpini, residuati dalla contrazione dell’ultima glaciazione, sono stati rinvenuti i semi della vitis vinifera silvestris. Non altrettanto precisi, però, sono i dati circa il suo allevamento da parte dell’uomo, che cominciano a essere di qualche valore documentario quando le fonti scritte si fanno numerose e persistenti. Ciò inizia con l’età medievale, mentre i testi letterari e agronomici classici, accompagnati dal corredo di resti materiali e artistici, pur descrivendo una fiorente viticoltura antica, per la nostra zona di indagine offrono solo limitate e generali notizie sulla sua presenza, sul suo sviluppo, sul quadro varietale e sui diversi fermentati[4]. Una serie di informazioni, insieme tipologiche e colturali, che per la Lombardia orientale non ha ancora conosciuto lavori sistematici sui dati archeologici, sui ritrovamenti di anfore vinarie e di pietre da torchio, sui vigneti antichi e la loro diffusione, sulla presenza di locali per la conservazione o di cantine di età pre-medievale.
Riferimenti generici esistono sin dal periodo tardo antico, confermati dal successo dei vini retici o dell’acinatico –un fermentato bianco e rosso, denso e dolcissimo, con cui Cassiodoro riforniva le cantine del re goto Teodorico[5]– e della pluralità varietale della pianura Padana a detta di Plinio il Vecchio e di altri autori classici[6], ma senza per questo fornire dati territoriali specifici. Ciò conferma un contesto agrario in cui la vite era pienamente innestata tra le colture, nota ai contadini e compresa nelle loro attività lavorative, come si evince da un passo omiletico del vescovo Gaudenzio di Brescia dell’inizio del V secolo. In esso il presule, tratteggiando l’immagine del suo predecessore il vescovo Filastrio, lo paragona a un esperto lavoratore dei campi: «Quel buon agricoltore tagliò subito dalle radici l’ispida selva di differenti errori e, curvo sull’aratro dell’insegnamento, rovesciò la terra priva di tutte le energie e trasformò lo squallido terreno con stretti solchi in fecondi campi coltivati, affondando abbondantemente nel suo grembo i semi dei comandamenti della vita. Piantò anche una vigna, per allietarsi del suo prodotto, poiché il vino rallegra il cuore dell’uomo (Sal 104,15)»[7]. Al di là dell’immagine retorica non infrequente, merita la segnalazione dell’ambiente rurale che viene descritto.
Tuttavia, è nel corso del medioevo che le carte documentarie –unite ai reperti archeologici, alle attestazioni iconografiche e alle analisi di terreni, di semi e frutti fossili –permettono di individuare, molto prima del Mille, una diffusa presenza viticola e la sua crescita, fino a diventare in molte zone la coltivazione arborea di gran lunga più redditizia e rilevante[8]. Il potente monastero femminile di San Salvatore - Santa Giulia di Brescia, oggi patrimonio Unesco, ad esempio tra IX e X secolo ricavava parte del vino dominicale delle sue tenute dell’Italia padana e soprattutto dalle grandi curtes delle colline della Franciacorta; il monastero di San Benedetto di Leno aveva possedimenti rurali a Gussago e Collebeato, in località cioè nelle quali è attestata un’antichissima e costante tradizione viticola –si pensi ai toponimi Cellatica o Ronco–, come pure diffusi vigneti erano posseduti nelle “Chiusure” (Clausurae) cittadine di Brescia dall’abbazia urbana di San Faustino Maggiore e dalla Mensa vescovile (fig. 3); lo stesso si può dire delle raffigurazioni su marmi o capitelli altomedievali di grappoli e viticci e dei ritrovamenti di pietre da torchio o di celle vinarie[9].
Per esaminare le zone viticole della Lombardia orientale e del Bresciano va considerata, innanzitutto, la differente articolazione territoriale: montagna, collina, pianura alta e bassa, zone lacuali e fluviali (fig. 1). Salvo le aree alpine più elevate e proibitive per ragioni ambientali e climatiche, trattandosi di una coltura “antropica”, la vite era coltivata ovunque, con incidenza maggiore dove l’insediamento umano era più concentrato, come nel suburbio cittadino o nei pressi di piccoli e grandi centri abitati[10]. La preoccupazione di proprietari e contadini, inoltre, non era tanto la “qualità” dei fermentati quanto la “quantità” dei raccolti, da cui dipendevano le maggiori forniture di vino da destinare al consumo e alla vendita. La differenza era nella messa a coltura della vite in zone pedologicamente favorevoli, quali quelle collinari, rispetto alle aree fluviali e della bassa pianura –quantitativamente redditizie anche se meno appetibili per i grandi proprietari che potevano permettersi di diversificare le colture in base ai terreni, destinando la vite ai pendii meglio soleggiati–, su cui sono documentati in tempi assai precoci una produzione differenziata e di elevato valore economico. È il caso delle colline intorno al lago di Garda e della Franciacorta, dove gli studi di zonazione –cioè sulle caratteristiche pedologiche dei terreni e si tratta di un dato di rilevante interesse– hanno evidenziato la coincidenza delle aree viticole più vocate con quelle delle corti monastiche altomedievali[11].
Per altro verso, va ricordato che anche nel contesto agrario ed economico-produttivo tardo antico si innestò in modo graduale la fede cristiana, che poneva il pane e il vino tra gli elementi centrali del culto e del simbolismo religioso, essendo indispensabili per la celebrazione della liturgia eucaristica, quali simboli del corpo e del sangue del Signore. Sin dalla prima cristianizzazione, pertanto, vescovi e monaci furono tra i promotori della conservazione e della diffusione della vite, mentre le leggi della Chiesa stabilivano che, quando si edificava una chiesa, un oratorio o un cenobio, si provvedesse anche ad una vigna per gli usi liturgici o si fornisse la nuova fondazione dei mezzi economici per il reperimento del vino necessario ai bisogni rituali. «Fecit ecclesias et plantavit vineas» è l’elogio di un vescovo carolingio e analoghe le parole di un’iscrizione funeraria di un abate milanese del IX secolo: «costruì palazzi e case», «piantò viti, olivi e alberi da frutto»[12].
La religione cristiana è legata alla vite e al vino dai suoi primordi[13]. Anzi si può notare una certa analogia tra antichità e medioevo nel processo di valorizzazione del frutto della vite: come lo sviluppo vitivinicolo nel mondo antico si avvalse dell’incontro con la ritualità misterica, così –nei secoli successivi alla caduta dell’Impero Romano– la sopravvivenza della vite, l’allargamento della sua coltivazione e l’uso del vino con finalità liturgico-sacramentali, dipesero anche dalle implicazioni simboliche e rituali legate al cristianesimo. In effetti, mai prodotti della natura, ottenuti grazie al lavoro e all’ingegno umano come il pane e il vino, erano divenuti tanto importanti da essere considerati segni e strumento della manifestazione divina, come nel mistero eucaristico e nella memoria dell’ultima cena evangelica.
La crisi delle istituzioni imperiali, le guerre di riconquista giustinianea, gli sconvolgimenti dei movimenti migratori e l’arrivo dei longobardi, portarono a una riduzione delle attività agricole e vitivinicole[14]. La vite non scomparve però dall’Italia padana, «neppure nei secoli più duri delle invasioni e della disgregazione del potere statale», ha scritto Emilio Sereni[15]. I campi ben tracciati, su cui prosperavano le viti alte appoggiate agli alberi (piantata), secondo la tradizione già etrusca e poi romana, lasciarono progressivamente il posto all’incedere del bosco, dell’incolto e delle paludi, che largo spazio trovano nelle fonti documentarie e letterarie prima del Mille. La viticoltura che sopravvisse alla fine di Roma appare organizzata in piccole vigne delimitate da zone boscose, circondate da siepi protettive e piantate nei pressi degli insediamenti urbani e rurali, secondo le caratteristiche di una coltura domestica e a conduzione familiare[16].
Dopo questa fase involutiva la coltura della vite e la produzione vinicola interessarono via via strati sociali sempre più larghi. Rispetto alla regressione del primo Medioevo, dall’VIII-IX secolo si registra una lenta, ma costante, inversione di tendenza, mentre l’interesse economico-produttivo prende il sopravvento sulle esigenze religiose del vino e le vigne continuano a prosperare all’ombra delle pievi, delle chiese e dei chiostri. Qui, secondo le norme canoniche e la regola benedettina, si esercitava l’ospitalità e l’offerta di buon vino era un segno di riguardo per viandanti e pellegrini. Vicino alle grandi canoniche e alle parrocchie rurali esistevano le strutture per la cura pastorale dei fedeli e il sostentamento dei chierici, dove si praticava la carità e la disponibilità di pane e vino, immagine dell’endiadi eucaristica, ne era la dotazione principale. I contratti enfiteutici, la legislazione longobarda e le disposizioni dei capitolari carolingi, come l’organizzazione curtense[17], confermano l’elevato valore attribuito alla vite e al suo incremento, l’incidenza economica e l’interesse –mai venuto meno– per tale coltura anche da parte laica[18].
Una prima accelerazione produttiva si ebbe a partire dalla fine del X e soprattutto nell’XI secolo, insieme al concomitante sviluppo urbano, quale conseguenza di una popolazione in forte aumento, affamata e assetata. La vite non si piantava più soltanto quale necessario corredo alla fondazione di chiese e monasteri, ma anche dei simboli del potere laico, come i centri dominicali curtensi e il castello signorile (Iseo, Capriolo, Cazzago, Caleppio, Rodengo, ecc.); allo stesso modo, lo sviluppo di una villa rurale o di un burgus procedevano parallelamente all’incremento della coltivazione viticola (fig. 3). È questo un aspetto comune a buona parte dell’Italia settentrionale nei secoli a cavallo del Mille, dove è normale trovare piccoli vigneti dentro il cortile di un castrum o appena fuori del perimetro fortificato, nella clausura di un monastero, nei pressi di un edificio pievano, delle ville o accanto alle cassine sparse nelle campagne[19]. A prescindere dalla zona urbana e suburbana, la sua coltivazione in pianura restava ancora legata prevalentemente ai centri curtensi, dove si configurava come una coltura arborea protetta, che difficilmente era allevata in aperta campagna; al contrario, la vite affiancava i sedimi e le case rurali insieme alle altre colture domestiche, sia da sola che in promiscuità, in appezzamenti via via più numerosi ma di modesta estensione[20].
Nel caso delle zone collinari, invece, l’incremento produttivo si ebbe attraverso l’avvio di nuovi dissodamenti agrari –indicati sovente col termine runcum–, destinati in prevalenza all’impianto di vigneti specializzati, che dalla seconda metà del XII secolo si caratterizzarono, precocemente rispetto al resto della campagna, per la “selezione” di vitigni di qualità e l’introduzione di tipologie provenienti dalle regioni balcaniche[21]. Si trattava di varietà differenti da quelle autoctone, che furono piantate e innestate sui ceppi locali per dare vita a nuovi vitigni adatti al territorio e al mutare delle esigenze del mercato; essi variavano dunque, anche in modo significativo, da una regione all’altra –si pensi alla malvasia, alla vernaccia o alla ribolla–, pur conservando gli stessi nomi. Le vigne specializzate del suburbio, le richieste cittadine, l’introduzione di varietà importate, contribuirono al graduale cambiamento del gusto dei consumatori che si indirizzò verso fermentati differenti da quelli tradizionali[22]. Ciò portò a tecniche più raffinate di vinificazione e alla trasmissione di conoscenze derivanti da un’elevata specializzazione.
Prima della fine del XII secolo e poi nel XIII, a partire dai vigneti dell’area collinare del Garda, delle Chiusure di Brescia e della Franciacorta, si ebbe una proliferazione varietale e produttiva che ricevette sostegno dalla legislazione statutaria[23]. Ciò si tradusse nel controllo fiscale del comune cittadino sull’intero processo produttivo, dal momento che il dazio vinicolo era una delle principali entrate municipali[24]. L’espansione dei vigneti e la loro convenienza economica diminuirono drasticamente verso la metà del XIV secolo, quando la concomitanza di una serie di fattori negativi convergenti –quali la crisi politico-istituzionale degli assetti regionali, la conflittualità perdurante, il peggioramento climatico e la recessione demografica, unita ad annate sfavorevoli e al perdurare di fenomeni epidemici–, fecero venire meno la domanda e la manodopera. Scarseggiando la forza lavoro, i costi dei salariati agricoli si alzarono, rendendo poco redditizia la cura delle vi-gne con personale stipendiato, mentre continuò a essere praticata nelle forme più sostenibili della conduzione familiare. Molti vigneti, piantati in zone poco adatte, vennero abbandonati e limitata la coltura ai siti davvero vocati.
Se in tutta la Lombardia orientale, tra l’XI e il primo quarto del XIV secolo, si registrò un ampliamento della viticoltura, tale processo si arrestò in modo quasi repentino a metà del Trecento. Si trattò di un punto di non ritorno per la vite, che, complice il peggioramento climatico e altri fattori economico-sociali, non raggiunse mai più l’espansione avuta nel XIII secolo, anche a livello europeo[25]. La ripresa che seguì non fu infatti altrettanto ampia, né uniforme e territorialmente diffusa; ma nella fascia collinare morenica e nel pedemonte, tra i due grandi laghi d’Iseo e del Garda, il suo rilancio avvenne già a cavallo del nuovo secolo, mentre nel resto della pianura lombarda i tempi furono più lunghi e trovarono un nuovo incentivo nei sistemi di impianto colturale promiscuo, nello sviluppo dell’alberata e della pergola domestica[26].
L’estensione della piantata –cioè della vite appoggiata agli alberi (o alberata)– fra Tre e Quattrocento, di cui l’agronomo bolognese Pier de’ Crescenzi offre le prime avvisaglie, poi descritta nelle Giornate d’agricoltura di Agostino Gallo a metà del Cinquecento[27], come pure la crescente disponibilità varietale e l’introduzione di vitigni idonei alla diversità dei luoghi, erano le ultime trasformazioni della viticoltura medievale che, con queste innovazioni produttive e colturali, entrava a pieno titolo nel periodo moderno insieme a tutto il suo bagaglio conoscitivo e sperimentale, ma assai meno estesa che in precedenza. Da questo punto di vista, quindi, il trapasso della coltivazione della vite verso il Rinascimento non fu altro che una continuazione, sia pure non priva di originali applicazioni e dilatazioni commerciali[28], della tradizione colturale precedente e perciò stesso differente da quella del mondo romano e tardo antico.
«Nella corte di Iseo si ricavano dalle vigne cento anfore di vino», suona così, cioè con l’indicazione di un’entrata di circa 26 ettolitri di vino, la descrizione della corte lacuale di Iseo contenuta nel Polittico dell’abbazia femminile di Santa Giulia di Brescia, il noto inventario di terre, coloni e redditi del cenobio benedettino dei primi anni del X secolo[29]. Nel documento, delle ottantacinque piccole e grandi aziende rurali (curtes e curticellae) che vi sono descritte, sei di esse –Griliano, Timoline, Canelle, Borgonato, Iseo e Castegnato (fig. 3)– erano ubicate in Franciacorta[30], dove tra la parte a conduzione diretta (dominicum) e quella data in fitto a coloni (massaricium) si registra una resa superiore a 525 anfore di vino l’anno (circa 137 ettolitri, ma la stima è per difetto), pari a più di un terzo del vino dominicale ottenuto dalle monache nelle loro cinquanta corti del territorio lombardo. Le eccedenze vinicole, inoltre, venivano poste sul mercato o andavano ad alimentare altre unità produttive monastiche che non ne avevano a sufficienza; allo stesso modo, anche i rustici destinavano al commercio parte del vino prodotto sui mansi, impiegandolo come merce di scambio, oltre che per pagare il canone di fitto e usarlo per il proprio consumo.
Le fonti scritte altomedievali che attestano la diffusione della vite cominciano nell’VIII secolo e fotografano un paesaggio rurale caratterizzato dalla preponderanza del bosco e della palude, in cui la vite era ridotta intra clausuras, accanto alla dimora padronale, al cortile e all’orto. Il primo dato che si rileva è la generica descrizione di vigne insieme ad altri elementi del territorio: campi, prati, incolto, pascoli, selve e così via, per le quali non è possibile dire alcunché riguardo al sistema colturale, alle varietà arboree allevate o alla tipologia di vini[31]. Nel secolo seguente, grazie all’accrescersi dei documenti, si nota una maggiore diffusione viticola nel contado rispetto alle vigne urbane. Nel caso di Bergamo, per fare un esempio, le carte del secolo IX mostrano un rapporto di ¾ di vigneti rurali contro ¼ di quelli cittadini, ma nel secolo successivo –a causa della maggiore instabilità politica e della devastazione delle campagne–, le vigne legate all’area urbana superano la terza parte del totale e quelle del territorio si riducono a meno di due terzi (figg. 4-5)[32]. Un dato solo indicativo, dal momento che la sua rilevanza informativa dipende essenzialmente dallo stato di conservazione del patrimonio documentario.
Le maggiori aree vitate, inoltre, si distribuiscono per oltre i due terzi nella fascia collinare pedemontana che da Brescia giunge al Bergamasco con la Valcaleppio, e al veronese con la Valpolicella, mentre per i secoli X e XI l’unico elemento di un certo interesse è quello relativo alla collocazione di pecie terre vineate[33]. Infatti, dall’analisi delle carte non si ricava nulla di più preciso della generica registrazione di terrae cum vineis o dell’elenco di campi, prata, pascua, vineae et silvae castaneae, senza ulteriori precisazioni sulla tipologia, l’estensione, la quantità o la qualità dei terreni lavorati e dei prodotti raccolti. Così, per limitarci alla Franciacorta, è possibile individuare porzioni di vigneto dipendenti dal monastero di Leno a Collebeato e, grazie a documenti del secolo successivo, anche a Colombaro, Gussago e nelle vicine località di Griliano, Villa, Sale e Valenzano; l’abbazia di Santa Giulia di Brescia invece, accanto alle dipendenze registrate nel Polittico, aveva possedimenti nelle Chiusure urbane nord-occidentali, sulle colline che affiancano il Mella, a Sant’Anna e alla Mandolossa, a Urago, Cellatica, Collebeato fino a Concesio, alla bassa Valtrompia e nella vicina Franciacorta[34].
A questo elenco si aggiungono i possessi dei priorati cluniacensi –fondati nella seconda metà dell’XI secolo[35]– distribuiti un po’ ovunque nella zona (Rodengo, Ome, Castegnato, Paderno, Passirano, Monticelli, Camignone, Provaglio, Cazzago, Clusane, ecc.), dove avevano interessi pure i monaci di Sant’Eufemia della Fonte di Brescia, le cui curtes principali erano poste tra Caionvico e Rezzato, a Castenedolo e nella bassa Valtrompia[36]. Nel pedemonte orientale, tra Botticino, Caino, Vobarno, Gavardo e Nuvolento, manteneva il suo nucleo patrimoniale più consistente l’abbazia vescovile di San Pietro in Monte di Serle, mentre le benedettine di Santa Giulia di Brescia, agli interessi della curtis di Nuvolera, aggiungevano quelli dei vigneti della Valtenesi e dell’area benacense, sia bresciana che veronese[37]. Qui, anche i monaci di Leno tenevano numerose vigne, come pure le coltivavano sui colli del basso Garda e soprattutto nelle grandi curtes della pianura –tra Leno, Gambara, Gottolengo, Remedello, Ostiano, Ghedi e Isorella[38]– che facevano da corona all’importante abbazia di fondazione regia, mentre il cenobio maschile di San Faustino Maggiore di Brescia aveva vigne in area collinare e tra Capriolo e Paratico[39] (fig. 3).
Questi riferimenti confermano la continuità della presenza viticola in tutta la fascia collinare che dalla città di Brescia giungeva al Sebino e al bacino del Garda, zona dove le condizioni pedologiche e climatiche erano molto favorevoli. Questo non significa che la vite non fosse coltivata anche altrove, nella bassa pianura, lungo il corso del Mella e dell’Oglio e in ambiti meno propizi come quelli montani, ma nell’area pedemontana si presentava come una coltura rilevante, anche se confrontata con l’arativo. La tesi secondo cui le vigne altomedievali, solitamente di piccola e piccolissima estensione, avrebbero assunto la forma della clausura, del podere chiuso da una siepe, divenendone anzi spesso sinonimo, è corretta ma in questi casi rappresentava solo uno dei sistemi di allevamento. In effetti, se erano numerose le vigne cintate e le pecie vineate coltivate dai manentes monastici di Santa Giulia, solitamente di modesta estensione, non mancavano vigneti di più ampie dimensioni, come quelli dominicali documentati a Iseo, Borgonato e Timoline[40]. Ciò significa che nelle curtes della Franciacorta la vite –come del resto la produzione di olio in quelle benacensi–, occupava un peso notevole nell’economia locale, superiore talvolta a quella del seminativo, configurandosi pertanto come una coltura specializzata.
I dissodamenti promossi dopo il Mille mutarono il paesaggio agrario, che si andò plasmando grazie a continui interventi e, nella fascia collinare che coronava Brescia nell’area settentrionale, le porzioni disboscate tra il XII e il XIII secolo diedero vita a una singolare evoluzione semantica. Il posto del bosco venne preso dalle vigne e il termine ronco divenne sinonimo di un terreno strappato al bosco e «piantato a vite». Nel suburbio cittadino, sulle colline della Franciacorta, nei dintorni di Caleppio, di Adro e Capriolo, come pure sulle pendici del monte Denno a nord-est di Brescia, sul monte di Castenedolo e sul colle di Capriano, nell’area pedemontana fino al lago di Garda, in Valtenesi, sulle colline del basso Garda e della Valpolicella, i dissodamenti iniziati lentamente tra X e XI secolo –e diventati sistematici tra il XII e l’inizio del XIV secolo– furono finalizzati alla messa a coltura di nuove vigne (fig. 6), organizzate secondo la forma del ronco vitato, della clausura o della braida chiusa artificialmente[41].
Riguardo ai patti agrari, la tipologia dei contratti ad plantandum vineam rappresenta una costante delle serie archivistiche sin dal XII secolo[42]; in essi viene riservato un posto di rilievo alle clausole con i lavori che il conduttore doveva svolgere per coltivare la vigna e mettere a dimora le viti sul terreno da dissodare che gli era affidato[43]. La durata di tali contratti variava e il canone previsto, fissato nella terza parte del vino o del mosto, con l’aggiunta eventuale della decima –di solito più basso nei primi anni a causa dei lavori di avvio dell’impianto– era innalzato alla metà quando la vigna entrava nel pieno vigore produttivo. Il dissodamento però, se era finalizzato alla viticoltura in collina e nel suburbio, conquistò rapidamente ampi spazi anche su glaree e regone formate dai depositi fluviali, sulle terre umide della bassa e in pianura: a Robecco d’Oglio nel XIII secolo il monastero cremonese di San Martino moltiplicò i suoi contratti ad plantandum vineas e la stessa cosa avvenne a Rudiano per iniziativa del comune di Brescia[44]; a Carpeneto di Morengo nel bergamasco, verso la fine del secolo precedente, gli abitanti misero a coltura un ampio lotto di terra vicino al fiume Serio piantandolo interamente a vite[45]; iniziative analoghe sono attestate lungo i corsi del Mella, dell’Oglio, dell’Adda, del Po e dei maggiori fiumi lombardi.
Quanto alla disposizione delle viti sul terreno, si può notare che alla fine del Duecento, accanto alle forme tradizionali di coltivazione specializzata –in filari o ad pergolos, specie in prossimità degli edifici rurali– e in promiscuità con arativo, prato, bosco e alberi fruttiferi, si affiancarono anche altri sistemi. Non si trattava di tecniche nuove, ma della ripresa di pratiche andate in disuso, ma note sin dall’antichità. È il caso della pergola domestica, attestata nelle fonti del secolo XI e poi in progressiva espansione, e delle viti piantate ad arbores, cioè maritate a sostegni vivi (Verola, Rudiano, Urago, Corvione, Gambara, Ostiano, Bagnolo, Roccafranca, Leno, ecc.), che tanta parte avrebbero avuto nella trasformazione del paesaggio agrario alla fine del medioevo[46]. Un caso ben documentato è offerto dalle fonti del XIII secolo relative a Rudiano[47], un borgo posto lungo il medio corso dell’Oglio al confine tra Brescia e Bergamo. Qui, all’inizio del Duecento, la situazione non sembra differente dal resto della pianura: vigne, affiancate al prato o al seminativo, di piccola dimensione e circondate da siepi, in forte crescita come conferma il ricorrere di terreni roncati, di toponimi legati all’ambiente boschivo e alle zone paludose[48]. Nell’inventario del 1286, invece, si registra l’aumento delle vigne per diversi ettari, anche se gli appezzamenti restano di dimensioni contenute e i campi, indicati nei decenni precedenti come ronchi, ora appaiono sostituiti da vigne che andavano prendendo la forma della piantata[49] (figg. 3 e 6).
Questa tipologia non era ancora prevalente, ma costituiva la tendenza colturale incipiente in pianura[50], testimoniata anche dalla struttura delle abitazioni rurali che, accanto alla domus o cassina contadina, vedevano affiancarsi filari di viti agli altri edifici destinati alla lavorazione dei prodotti agricoli e alla loro conservazione. Non solo, quindi, negli inventari si parla di terre vidate in arboribus, ma in occasione del rinnovo dei vecchi vigneti si precisa che ciò avveniva ponendo filari di viti e di alberi intercalati da spazi di seminativo, cioè terre vidate in arboribus de novo. L’interesse crescente per la vite, poi, trova conferma anche nell’elevato numero di nuovi impianti rispetto a quelli degli inventari della prima metà del secolo: terra vidata de novo, terra vidata de novis vitibus, vinee nove, pecia terre vitum novellarum oppure terra de novo plantata vinearum, in cui la vigna sottraeva spazio alle colture cerealicole e al seminativo, come appare dalle espressioni terra vidata de novo in qua fuit panicum o in qua fuit milium, in qua fuit milium et milica, e così di seguito[51].
I nuovi vigneti, piantati di viti novelle e ordinati in filari retti da alberi tutori, erano formati da ampi appezzamenti, estesi anche per diversi ettari e delimitati da fossati e siepi protettive, su cui spesso viene indicato il numero delle viti presenti. Questi impianti conobbero una vivace stagione produttiva con l’avvio del XV secolo durante la signoria malatestiana nel bresciano e in seguito allo stabilizzarsi del dominio veneziano[52]. Per via degli elevati costi di avviamento, però, potevano essere messi in opera soprattutto dai proprietari maggiormente dotati economicamente –è il caso dei Gambara a Corvione, Leno, Pralboino e Verolanuova, dei Martinengo nella campagna intorno a Urago d’Oglio o dei monaci Olivetani di Rodengo a Lograto e Trenzano–, poiché richiedevano impegnativi lavori di scasso, di sistemazione e di avvio, una cura attenta e strutture capaci di trasformare e imbottare il raccolto (locali per la vinificazione e l’invecchiamento, torchi, recipienti vinari, botti, barili, gerle, tini, mastelli, ecc.), registrati negli inventari d’archivio.
Lo stesso processo colturale avvenne anche nell’alta pianura bresciana e bergamasca, mentre sulle pendici collinari la vigna in coltura specializzata, lavorata in filari stretti e bassi sui terrazzamenti artificiali o a rittochino secondo la linea di pendenza della costa –è il caso del monte Orfano di Rovato, dell’area collinare di Capriolo, della valle di Ome, del colle della Santissima a Gussago, del Pedemonte, della Valcalepio o dell’entroterra del Garda–, mantenne il tenore di una viticoltura di qualità, dove alla fine del medioevo si coltivavano con profitto schiava, nostrano, luglienga, groppello, vernaccia, trebbiano, moscatello, invernenga, malvasia e marzemino con rilevante ritorno economico, come hanno messo in luce le schede sugli antichi vitigni bresciani degli agronomi Villa, Milesi e Scienza[53].
Se è vero che nel territorio bresciano si ebbe una generalizzata espansione della vite, con la sola esclusione dell’alta Valcamonica e Valtrompia –dove i rigori invernali e la configurazione montana ne rendevano impraticabile la coltura–, ben documentati sono i lavori agricoli necessari ad una vigna[54]. Nelle carte altomedievali, ma soprattutto dalla fine del XII secolo, frequenti sono le registrazioni delle clausole contrattuali relative agli impegni colturali che obbligavano il conduttore di un fondo[55]. In primo luogo, per impiantare un vigneto, si doveva preparare il terreno, strapparlo al bosco e all’incolto, dissodarlo, ararlo in profondità, zapparlo col bidente e liberarlo dai sassi più grossi, specie in area morenica, che venivano accumulati lungo i bordi del campo, da cui i termini musna e terra mureriva[56]. Veniva quindi creato un fosso di scolo in modo che le acque piovane non si depositassero danneggiando le viti e all’occorrenza consentisse anche di irrigare il vigneto, mentre nelle zone collinari si procedeva a terrazzamenti rinforzati da muretti a secco, secondo consuetudini antichissime. Il tutto comportava un notevole dispendio di forze lavorative, di sudore e di capitali ammortizzabili nel medio periodo.
La vite veniva posta a dimora scavando fosse di circa mezzo metro, sul cui fondo erano posti sassi di drenaggio, foglie, frasche o altro materiale organico per ammorbidire e arricchire il terreno; poi si mettevano nella terra delle talee senza radici, formate da tralci dell’anno precedente con una porzione di legno vecchio alla base, a distanze variabili l’una dall’altra. Le talee erano il metodo meno costoso, ma raramente i maglioli attecchivano tutti, per cui l’anno seguente era necessario riempire i vuoti rimasti. I tempi di produzione di questo tipo di vigneto variavano dai sei ai nove anni. Il metodo più costoso, ma più efficace, era quello di sistemare le talee in un vivaio e di ripiantarle quando avevano messo le radici. Un terzo metodo, assai frequente e diffuso, era quello della propaggine, che consentiva di avere un vigneto produttivo in quattro-cinque anni[57].
La piantagione si faceva in autunno o in primavera: le viti venivano ricoperte di terra in modo che i rigori del freddo invernale o il caldo estivo non le facessero seccare sul nascere. Prima dell’impianto si mettevano i pali e i sostegni, verdi o secchi, a cui venivano legate le giovani pianticelle con vimini di salice. A garanzia del vigneto non vi era solo il fossato, ma anche una siepe protettiva che circondava il campo. Nel corso dell’anno il contadino svolgeva continui lavori nella vigna: completata la vendemmia, zappava e ripeteva tale operazione nei mesi di maggio e di agosto, mentre nelle zone di pianura, dove i filari erano disposti in modo più largo, arava per due volte con i buoi per favorire un utilizzo promiscuo dei terreni e regolarne l’umidità. Tra gennaio e febbraio aveva luogo la potatura, che si faceva asportando i tralci meno vigorosi, si rinnovavano i ceppi invecchiati mediante propagginazione, si sostituivano i sostegni malandati, si mettevano nuovi pali e si arricchiva il terreno con concime organico e minerale.
Dopo la potatura e durante la primavera era necessario levare seu asalgare in altum[58], cioè legare le viti sollevandole da terra in modo da garantire un appoggio adeguato ai tralci carichi di uva e consentire di operare sul terreno sottostante senza recare danno alla pianta e ai suoi frutti[59]. Tra aprile e maggio si procedeva alla spollonatura mediante la rimozione dei germogli infruttiferi, mentre ad agosto si effettuava la potatura verde, togliendo i tralci e le foglie sovrabbondanti per favorire una migliore esposizione delle uve ai raggi del sole, la circolazione del-l’aria che rendeva difficile la formazione di muffe, di funghi o marciumi radicali e contrastare l’attacco di parassiti o insetti nocivi.
La vendemmia costituiva il momento più importante di tutto il lavoro del vignaiolo[60]. La raccolta delle uve, fatta con ceste e cavagni di vimini, avveniva dopo aver informato il proprietario che poteva recarsi sul posto per sorvegliare le operazioni di raccolta e il prelevamento del canone che gli era dovuto. L’uva veniva trasportata dalla vigna su carri verso il luogo di lavorazione e la cantina, dove era dapprima pigiata con i piedi e poi torchiata, mentre il mosto era messo nelle botti. L’inizio della vendemmia era fissato dalle autorità comunali e non avveniva prima della festa detta di Santa Maria de vendimia, ossia della Natività di Maria l’8 settembre; i lavori cominciavano di solito dopo la metà del mese e potevano protrarsi sino alla fine di ottobre, a seconda delle varietà di vitigni coltivati e del luogo.
Lo scopo dell’intervento pubblico era quello di impedire la concorrenza sleale tra i produttori e la possibilità di frodi, dal momento che il vino nuovo era considerato migliore di quello dell’anno precedente[61]; di conseguenza, subito dopo la pigiatura il mosto poteva essere venduto come nuovo a un prezzo superiore di quello vecchio dell’annata precedente, essendo considerato vino a tutti gli effetti anche se non era ancora terminata la fermentazione. Le necessità della città di approvvigionarsi con regolarità spiega il progressivo interesse del comune di Brescia alla coltura viticola, alla sua tutela e incremento, come pure all’introduzione di norme per il controllo del commercio vinicolo a fini fiscali, alla tutela dei consumatori contro truffe e sofisticazioni e all’avvio di politiche protezionistiche che, nel corso del XIII secolo, sono attestate dagli statuti[62].
Prima della raccolta, tuttavia, si preparavano i contenitori vinari o se ne acquistavano di nuovi, si stringevano i cerchi, si rinnovavano le doghe delle botti, si lavavano i tini e si sistemava la cantina[63]. Gli uomini del castrum monastico di Vallio in Valsabbia, soggetti alla giurisdizione signorile dell’abate di San Pietro in Monte di Serle, prima della vendemmia dovevano sistemare le strade che conducevano al castello: facere circullos et ligare et facere de novo tinacios, recita un documento del XIII secolo, aptare et stringere unum tinacium et omnes vegetes dicte roche, mentre l’abate procurava perticas ad ligandum vetias; essi pagavano anche una certa quantità di vino quando travasavano, consegnandolo alla cantina del cenobio posta nella rocca di Vallio, avvisavano i monaci prima di iniziare la vendemmia e davano la decima parte delle uve, che erano torchiate presso il centro munito dove si trovava un grande torchio[64].
La produzione complessiva era adeguata alle richieste interne e, salvo i vini più pregiati come la malvasia, la ribolla, alcuni fermentati greci o di importazione orientale, in terra bresciana non viene documentata la circolazione di prodotti forestieri importanti; al contrario, una modesta esportazione e scambi a medio rag-gio alimentavano il commercio vinicolo che dalla Franciacorta si dirigeva verso le vicine valli bergamasche e in Valcamonica, grazie all’agevole via di transito del lago d’Iseo, come pure lungo la strada della Valtrompia fino a Bovegno, percorsa di carri di schiava e di nostrano, oppure dalle vigne del contado verso il mercato cittadino. Il vino prendeva anche le vie della pianura cremonese e del capoluogo lombardo[65], mentre sulle vicine colline bergamasche dei dintorni di Scanzo dal XIV secolo prese a circolare a breve raggio un vino moscatello, delicato e gentile, di valore medio-alto, che conquistò il favore dei consumatori del tempo, la cui coltivazione continua ad essere oggetto di cure fino ai giorni nostri.
Il panorama ampelografico e la limitata circolazione dei vini locali porta a dire qualcosa sulle loro rese. Tuttavia, parlare della produzione viticola in Franciacorta non è facile perché non esistono dati statistici per il medioevo o l’età moderna e le variabili possibili da tenere in conto –quali la tipologia dei vitigni, le tecniche colturali, il luogo e la natura dei terreni– sono difficilmente misurabili. Alcune informazioni documentarie, pur non fornendo stime affidabili, consentono però di formulare qualche ipotesi plausibile.
Dall’alto al basso medioevo, ma si tratta di un dato valido anche in seguito per il periodo moderno, le rese viticole non si discostano molto. Nelle tenute vescovili di Collebeato, per esempio, la produttività per ettaro tra la fine del XIII e l’inizio del XIV si aggirava intorno ai 500 litri, vale a dire era piuttosto modesta, non solo se paragonata a quelle attuali (che per i vini bianchi si fissa in Franciacorta tra 90 e 120 ettolitri per ettaro), ma anche alla rendita media di circa 15 ettolitri che si stimava nel bresciano a metà Ottocento[66]. Le cause di rendimenti così esigui sono molteplici e risiedono principalmente nella promiscuità colturale, nell’impotenza di fronte a malattie, parassiti, eventi meteorici e climatici, come pure nella tipologia dei vitigni, nella natura dei terreni, nella scarsa concimazione, ecc. Di contro, la commistione delle colture era anche una risposta agli elevati rischi produttivi di ogni annata ed era un sistema adottato quale criterio di buona gestione colturale che continua ad avere la sua validità.
La ricerca storica, inoltre, ha definito il quadro dell’ampelografia bresciana moderna, benché i nomi delle varietà viticole non offrano indicazioni univoche rispetto a quelle medievali, né siano assimilabili a quelle odierne che hanno la stessa denominazione. Novità importanti sui vitigni e la qualità dei vini provengono dalle carte dell’area collinare e del circuito urbano, dove rilevante è la precocità varietale segnalata già dalla seconda metà del XII[67]. Una viticoltura caratterizzata da vigneti specializzati di elevata qualità, come attestano le disposizioni contrattuali che stabilivano di piantare vitigni albi e vermilii (schiava, nostrano, luglienga, groppello, vernaccia, e in seguito moscatello, malvasia, pignolo, ecc.), ordinando per tali impianti un’attenzione premurosa e i cui fermentati avevano un valore economico superiore di un terzo circa rispetto ai vini comuni. Questa innovazione, avvenuta in campo agronomico e nel gusto dei consumatori, appare dalle carte della Mensa vescovile di Brescia e degli archivi monastici della zona, i cui titolari detenevano i loro possedimenti vitati nella fascia collinare morenica e pedemontana, ma anche dal Liber potheris del comune di Brescia relativo alle Chiusure urbane.
Dal punto di vista dei consumi, va detto che –oltre ad essere mediamente assai più elevati di quelli odierni– per i medievali il vino bianco era considerato più pregiato e per questo più adatto alle classi elevate (e da un certo momento, di conseguenza, anche per la liturgia); il rosso però, nell’immaginario popolare, era il vino per eccellenza e il più adatto agli usi sacramentali per il suo colore (anche se bianco e rosso potevano essere usati indifferentemente)[68], il più diffuso e bevuto. Di solito non veniva assunto puro ma mischiato con acqua –anzi, per le maggiori garanzie di salubrità, il suo consumo superava quello dell’acqua– e riguardava tutte le età e gli strati sociali[69]. Il vino adaquato, misclato o marello era un prodotto che si otteneva dalla ripetuta torchiatura delle vinacce, pressate a più riprese e ravvivate con l’aggiunta di acqua[70]. Ne abbiamo un esempio alla fine del Duecento, quando le monache di Santa Giulia di Brescia permettevano di farlo ai rustici che lavoravano la vigna claustrale posta alle pendici del Cidneo, i quali producevano vinum marellum[71], mediante le vinacce esauste già precedentemente torchiate per le religiose.
Il primo fermentato a comparire nelle fonti nel 1176 è il vinum nostranum, un rosso ottenuto da diverse qualità di uve bianche e vermiglie[72]. Questo metodo di vinificazione, se non consentiva la produzione di vini di elevata qualità, garantiva però rese di discreta quantità; inoltre, con il termine nostrano non si indicava un vino anonimo, fatto dalla semplice miscela di uve differenti, ma un fermentato comune, localmente riconoscibile e di accettabile valore –inferiore però alla schiava, alla vernaccia e ad altri fermentati–, che variava da un luogo all’altro in base alle tipologie delle uve maggiormente presenti in quella zona. Ogni località aveva cioè il suo vino locale o nostrano.
Tra le uve bianche la prima ad essere attestata, nel 1180 sulle colline del lago di Garda e dal 1195 anche nelle Chiusure di Brescia[73], è la schiava, assai diffusa in Italia settentrionale in età comunale. Nel XIV secolo l’agronomo Pier de’ Crescenzi la pone all’inizio del suo elenco delle migliori uve da piantare e loda la produzione bresciana, nelle cui vigne dice essere prevalentemente coltivata[74]. Appoggiata a sostegni secchi, la schiava era allevata in collina dove la terra era magra; il suo vino sottile e chiaro era adatto all’invecchiamento e preferito per gli usi liturgici. Accanto alla varietà bianca vi era la schiava nera, soprattutto in pianura, per quanto poco adatta alla vinificazione; la sua qualità migliorava se abbinata al groppello[75].
Un vitigno, quest’ultimo[76], di provenienza veronese largamente coltivato in Lombardia, le cui uve bianche (quelle nere erano meno adatte a vinificare) davano un vino robusto e gentile, impiegato per rinvigorire i fermentati più deboli[77]. Alla stessa famiglia doveva appartenere anche il pignolo –nome dovuto forse alla compattezza dei grappoli–, ottenuto da uve nere e poco resistente nel tempo. Il suo incrocio con vitigni della famiglia dei groppelli consentì nel corso del XV secolo di avere una varietà di pignolo di qualità superiore[78], che ebbe una discreta distribuzione nella pianura lombarda tra Lodi e Crema, sulle colline dell’alto mantovano e nella bassa bresciana.
Vino pregiato, attestato sin dal Duecento in buona parte del territorio provinciale, era la vernaccia[79], la cui varietà doveva essere differente da quella ligure o toscana. Si trattava di un vino bianco secco o dolce e liquoroso a seconda della tecnica di vinificazione, ricco di virtù terapeutiche; era paragonato ai vini greci e alla malvasia per la bontà, ma le sue rese erano modeste, mentre la qualità nera risultava inferiore a quella bianca, anche se più produttiva. La predilezione per i vini dolci e profumati sta alla base della fortuna del moscatello –celebre quello prodotto sulle colline bergamasche di Scanzo e della Valcaleppio[80]–, di cui le prime notizie compaiono alla fine del XIV secolo e una capillare documentazione continua nel secolo successivo. Nel caso di Scanzo, alcuni agronomi cinquecenteschi ne lodano la buona qualità, giudicandola superiore ai moscati in genere delle colline bergamasche, brianzole e lariane.
Tra le uve dolcissime, assai ricercata era la malvasia bianca, diffusa soprattutto nei giardini urbani, il cui vino prodotto in area padana era diverso da quello mediterraneo forte e liquoroso di Candia. Numerose testimonianze del vino importato da Creta si hanno all’inizio del Quattrocento, insieme alle forniture di malvasia, di vino di Tiro e di crespia –definito un vinum phaleratum, suavissimum, pulchrum et amoenum e ottenuto mediante la rifermentazione di vino vecchio e mosto–, di cui nel 1414 vennero consegnate sei gerle a Pandolfo Malatesta dal suo fattore della tenuta di Clusane[81]. Tra il Due e il Trecento nella cantina vescovile, annessa al palazzo episcopale di Brescia, erano collocate varie botti su appositi sedili, distinte in base alla tipologia di vino[82] –bianco, rosso, nostrano, cisiolo, groppello, schiava, vernaccia, ecc.–, segnate con una diversa lettera alfabetica o con un numero progressivo[83].
A questo elenco, certamente incompleto, gli statuti di Brescia del 1355 aggiungono la luyana, la brumesta e la durasna[84], il cui nome indica i tempi di maturazione o le caratteristiche, mentre Agostino Gallo, a metà Cinquecento, ricorda tra le uve rosse le marzamine, dai grappoli lunghi e dagli acini grossi, le besegane e le rossere che producevano un vino discreto se unito col groppello o col merzemino; le voltoline che davano grande quantità di uva e le pignole dal sapore semplice e buono[85]. Un posto privilegiato nella cantina del vescovo di Brescia[86] spettava al cisiolo: un vino prodotto dalla fermentazione in bianco di uve rosse, amabile e frizzante, attestato sin dall’inizio del XIV secolo. La sua preparazione viene illustrata dall’agronomo Gallo: il mosto, ricavato dalla pigiatura di uve nere mature non torchiate, era posto in piccole botti ben sigillate che, prima del termine della fermentazione, venivano immerse nell’acqua fredda di profonde cisterne per rallentarne la “bollitura”. Questo metodo consentiva ai vini di restare «piccanti per più mesi, et alquanto dolci», scrive l’agronomo bresciano[87], di durare nel tempo e crescere «in bontà quando è passato l’anno»[88].
In testa alle uve bianche egli colloca le viti trebbiane, il cui vino potente era abbondante e delicato se proveniente dai colli percossi dal sole; seguivano le groppelle bianche e le buonimperghe dal vino delicato, le albamatte che maturavano tardi e le bugarelle che non solo erano ottime da mangiare e davano uva in abbondanza, ma facevano anche un vino limpido e soave[89]. Tra le uve da tavola, accanto alla vernaccia, alla malvasia e al moscatello, elencava pure le alliane o luyane[90] che maturavano per prime alla fine di luglio, le duracine che, fatte seccare, erano delicatissime da mangiare a Carnevale e a Pasqua, e le brumeste nere e bianche –tipologia nota come invernenga[91], la cui varietà prefillosserica è ancora esistente nel vigneto storico situato sulle pendici del castello di Brescia– dal sapore morbido, anche se di tardiva maturazione. Infine, la marina nera, un’uva preziosa, priva di vinaccioli, usata in cucina per fare cibi ripieni o dolci ricercati, e consigliata dai medici per le sue virtù terapeutiche[92].
La novità enologica più interessante, tuttavia, la cui esistenza rende in parte ragione del successo economico dell’odierno Franciacorta[93], è rappresentata dal cisiolo, paragonato ai chiaretti francesi da Agostino Gallo[94], apprezzato e venduto in area lombarda e piemontese. Si trattava di un vino giallo paglierino –come indica l’etimologia del nome– che si otteneva dalla fermentazione in bianco di uve rosse; il mosto ricavato veniva lasciato fermentare per breve tempo e subito messo in botticelle di rovere cerchiate di ferro e impermeabilizzate all’esterno con grasso animale. Per arrestare il processo fermentativo, si immergevano i piccoli contenitori in cisterne d’acqua gelida, calati in fondo a pozzi o conservati in cantine particolarmente fredde. Il risultato era un vino amabile e leggero, tendenzialmente dolce e soprattutto frizzante fino ai primi caldi estivi, quando la ripresa della fermentazione, dovuta all’aumento della temperatura, riduceva la briosità iniziale, rendendolo però più resistente e conferendo al cisiolo un sapore gentile.
Il Gallo ne parla a compendio della trattazione sulla durata della fermentazione, «la maggior questione –scrive– dibattuta tra gli agricoltori del suo tempo»[95]. L’interesse dello studioso bresciano era quello di contrastare la diffusa consuetudine di lasciar fermentare a lungo le vinacce sul mosto, mentre la riduzione dei tempi di fermentazione rendeva, a suo avviso, i vini più longevi. Grazie al modo di fabbricare il cisiolo i vini restavano «piccanti per più mesi, et alquanto dolci», duravano più a lungo e crescevano «in bontà passato l’anno» dall’imbottamento. Al contrario, l’abitudine di far bollire per molti giorni le vinacce nei tini produceva dei vini duri, grossi e aspri, «somiglianti nel colore all’inchiostro», anche se amati dal volgo e privilegiati dalla farmacopea tradizionale; egli lodava invece i vini chiari e rossi rubino che non venivano fatti fermentare più di tre o quattro giorni, secondo l’usanza dei francesi che per questo bevevano in prevalenza «vini claretti», cioè bianchi o rosati[96].
Secondo l’opinione dell’agronomo italiano, confermata dal medico quinzanese Girolamo Conforti[97], questa pratica enologica non era nuova tra i contadini bresciani che da molto tempo, come mostrano le carte della Mensa vescovile bresciana, producevano vini simili ai limpidi clarets francesi. Lo facevano con il cisiolo che, in più rispetto ai vini della Gallia, era piccante, mordace e amabilmente dolce. La trattazione sui vini frizzanti del Gallo, ripresa negli anni seguenti da altri[98], risulta essere così la prima codificazione di un vino non fermo (sia pure non in bottiglia), destinato ad avere enorme successo dal XVIII secolo in poi in Champagne, secondo una consolidata tradizione popolare, grazie all’estro di un monaco dell’abbazia di San Pietro di Hautvillers.
Accanto all’apprezzamento per il gusto, il principale argomento a favore del chiaretto era di tipo medico-dietetico, dal momento che era ritenuto superiore ai rossi in quanto più digeribile essendo più chiaro, leggero e assimilabile. Argomentazioni nelle quali è facile ravvisare, sia pure con esiti opposti, i medesimi presupposti teoretici che fanno da sfondo al cinquecentesco trattatello sulle proprietà dei “vini mordaci” di Girolamo Conforti, tanto apprezzati dalla gente comune quanto –a suo dire– inadatti alla salute, a causa proprio della loro briosità[99]. Il fatto che sia stato un agronomo bresciano a dare conto, prima di altri, della predilezione per i vini spumeggianti o frizzanti e che abbia collegato il metodo di fare il cisiolo a quello dei clarets non è casuale e si deve attribuire, oltre che all’intuizione del Gallo, alla buona conoscenza che egli aveva della tradizione enologica transalpina. Come non è casuale, a questo proposito, la sua amicizia con François de Belleforest che tradusse in francese le sue Venti giornate della vera agricoltura, opera che, grazie ad alcuni opportuni interventi e ai tagli operati dal traduttore, ebbe uno straordinario successo editoriale in Francia[100].
Il suo elogio dell’agricoltura, infine, e questa era un’altra grande novità, si giustificava come un’occupazione nobile, degna di essere intrapresa dall’aristocrazia del tempo per sperimentare la bellezza e il rigore necessari al governo della natura e della casa, per esprimerci con Giacomo Lantieri da Paratico, un altro autore che ne condivideva il pensiero[101]. Al nobile gentiluomo che sceglieva di vivere in villa, cioè nel ritiro aristocratico della sua residenza di campagna, il Gallo proponeva una bevanda elitaria come il cisiolo, tanto simile ai chiaretti francesi, quanto differente dal vino popolare e per questo vero status simbol per il patriziato.
La fortuna del Franciacorta ha dunque radici profonde. Il suo nome coincide con quello di un vino e del territorio italiano che lo produce, proprio come Rioja o Champagne corrispondono ai celeberrimi fermentati transalpini e alle omonime regioni del nord di Spagna e Francia dove si ottengono. Si può anzi rilevare che, grazie alla forza della comunicazione pubblicitaria e dei media, la fama di questi vini ha ormai superato la notorietà stessa dei territori di origine.
Dal punto di vista storico, però, è interessante documentare la presenza della coltura della vite e una tradizione enologica, praticata almeno dal XIII-XIV secolo, che permetteva di fabbricare vini frizzanti ed effervescenti di colore bianco, più pregiati e ricercati rispetto ai comuni rubei nostrani. Su tale solida consuetudine, tra Quattro e Cinquecento, si innestò quella dei chiaretti della Gallia che non riuscì a sovvertire le tecniche enologiche diffuse in Franciacorta e in area lombarda, ma consentì al Gallo di dare conto dell’originalità di quella prassi locale molto antica. L’agronomo italiano, pur lodando le novità transalpine, riconosceva nell’abilità di vinificare il cisiolo, praticata da secoli nel bresciano, la sapiente abilità nel produrre un fermentato degno delle mense episcopali, delle tavole aristocratiche e adatto al loro rango, come lo era quello più celebrato d’oltralpe.
Prima dell’avvio del costume o della moda dei clarets francesi, dunque, in Franciacorta si faceva un vino dalle caratteristiche analoghe, frutto di una raffinata tecnica enologica, che rispondeva alle nuove attese del gusto dei consumatori. Allo stesso modo, precedentemente alle innovazioni enologiche attribuite a dom Pierre Pérignon († 1715), sulle colline moreniche lombarde tra il Mella e l’Oglio si preparava un vino mosso e cortese, resistente nel tempo e privilegiato dalle tavole signorili, che può essere ritenuto lo storico antenato dell’odierno Franciacorta, vanto di un territorio che, grazie al successo del suo vino, è oggi conosciuto in tutto il mondo.
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[1] Per una breve rassegna sulla storiografia italiana in campo vitivinicolo, orientativa delle tendenze e delle ricerche dell’ultimo trentennio, si vedano Pini, 1990, pp. 6-38; Comba, 1990; Gaulin, Grieco, 1994; Forni, Scienza, 1996; Archetti, 1998, pp. 23-172; Da Passano et al., 2000; Cortonesi, Montanari, 2001; Archetti (ed.), 2003; Blason Scarel (ed.), 2005; Olio e vino nell’alto medioevo, 2007; Nanni, 2007; Dalena, 2010; Carassale, Lo Basso, 2014; qualche riferimento anche in Galeotti, Paperini, 2015; inoltre, L’alimentazione nell’alto medioevo, 2016; Cortonesi, Passigli, 2016; Corcella, Lucifora, Panarelli (ed.), 2019.
[2] Un esempio in questo senso è il convegno di studio di Sant’Angelo Lodigiano (Lodi) del 1999, i cui atti sono editi nel volume di Failla, Forni (ed.), 2001, come pure quello del congresso ligure edito in Carassale, Lo Basso, 2014; la ricerca di vitigni sopravvissuti alle malattie parassitarie del XIX secolo, oltre al valore scientifico intrinseco, comporta il recupero delle varietà autoctone antiche di un territorio, la loro identificazione, catalogazione e tutela; così è stato fatto per esempio dal Centro vitivinicolo provinciale di Brescia, i cui dati sono confluiti in Villa, Milesi, Scienza, 1997.
[3] Archetti, 1996, pp. 61-182; Archetti, 1997, pp. 3-24; Archetti, 1999a, pp. 43-54; Archetti, 1999b, pp. 93-117; Archetti, 2000, pp. 3-45; Archetti, 2008b, pp. 91-120; Archetti, 2019a.
[4] Archetti, 2005, pp. 96-111; Archetti, 2008b, pp. 91-120; Archetti, 2014, pp. 13-35; Stroppa, 2014, pp. 306-356.
[5] Fridh, 1973, XII, 4; il brano è commentato da Azzara, 2003, pp. 533-534, che scrive: «Il vino veronese spiccava, nelle parole di Cassiodoro, per il suo colore purpureo, degno quindi di un re, e per il suo sapore unico; si rammentavano pure le fasi principali della sua produzione, dalla conservazione dell’uva in specifici contenitori, perché perdesse i fatui humores e concentrasse gli zuccheri, divenendo dolce, all’esposizione all’aperto durante l’inverno, per asciugare e maturare, si da essere infine spremuta allorquando i vini normali cominciavano invece già a invecchiare. Una volta pronto, il vino doveva essere consegnato ai chartarii, funzionari del patrimonio di corte, che avevano l’obbligo di conservarlo adeguatamente, preservandone le caratteristiche». Più in generale, si vedano gli atti dell’incontro curato da Corcella, Lucifora, Panarelli (ed.), 2019.
[6] In proposito si rimanda a Buchi, 1996, pp. 373-389; Pesavento Mattioli, 1996, pp. 391-408; come pure ai saggi dedicati alla sezione intitolata Il vino romano tra sacro e profano –con testi di S. Pesavento Mattioli, M.S. Busana, S. Cipriano, S. Mazzocchin, G. Piccottini, V. Vidrih Perko, A. Mastrocinque, A. Buonopane– nel volume Blason Scarel (ed.), 2005, pp. 17-78; mentre per la tradizione agronomica cfr. Gaulin, 1990, pp. 103-135; Ferraglio, 2003, pp. 715-750; Gavinelli, 2019, pp. 271-286.
[7] Gaudenzio di Brescia, 1991, XXI, 8, p. 483; per un commento a questo passo, Motta, 2003, pp. 201-202.
[8] Pini, 1997, pp. 2123-2128; Cortonesi, Pasquali, Piccinni, 2002, pp. 217-240.
[9] Per un quadro sulla viticoltura medievale in Franciacorta, Archetti, 1996, pp. 61-182; Archetti, 1999a; per le immagini di pane e vino, con riferimento alla liturgia eucaristica, Stroppa, 2019, pp. 287-321; Stroppa, 2014, pp. 321-334; utili anche i saggi di Giovanni Gasbarri (pp. 1159-1182), Lucinia Speciale (pp. 1183-1210), Francesca Stroppa (pp. 1211-1338) e Gabriele Archetti (pp. 1663-1704), in Archetti (ed.), 2015c.
[10] Territorio e vino, 1999; Archetti, 2000, pp. 3-35.
[11] Comolli, Panont, 1997; Archetti, 1998, pp. 223-224; Archetti, 1999, pp. 93-117.
[12] Per questi e altri riferimenti si rimanda alle note del classico lavoro di Pini, 1989, pp. 23, 38, 65-66. Sul contributo del monachesimo alla vitivinicoltura mediterranea ed europea, invece, Archetti, 2003b, pp. 205-326; Archetti, 2005, pp. 96-111; Archetti, 2007, pp. 1099-1209; Archetti, 2008a, pp. 179-211; Archetti, 2015a, pp. 65-87; Archetti, 2019b, pp. 183-215.
[13] Pini, 1989.
[14] Pini, 1990a, pp. 340-342; Gaulin, Grieco (ed.), 1994; Cortonesi, 2007, pp. 219-230; per la Lombardia e il bresciano, Archetti, 1998, pp. 175-209.
[15] Sereni, 1987, p. 95.
[16] Montanari, 1984.
[17] Nel caso del Polittico del monastero di Santa Giulia di Brescia, l’inventario dei possedimenti abbaziali dei primi del secolo X, si è notato come nella distribuzione delle curtes esistesse una precisa organizzazione colturale tesa a valorizzare le caratteristiche pedologiche dei siti in cui queste erano ubicate; in particolare, la viticoltura aveva i suoi terreni elettivi nelle tenute dell’area collinare, posta tra Brescia e il lago d’Iseo, dell’attuale Franciacorta (Archetti, 1996, pp. 66-80); per la specializzazione produttiva delle corti giuliane cfr. Pasquali, 1992, pp. 131-145; Baronio, 1996, pp. 18-47; per la datazione del polittico, Archetti, 2015, p. 660.
[18] Pini, 1997.
[19] Pini, 1997; Archetti, 2021b.
[20] Montanari, 1984, pp. 5-6, 11, 13-14.
[21] Archetti, 1996.
[22] Montanari, 1979, pp. 372-384.
[23] Archetti, 1996, pp. 157-164.
[24] Pini, 1989, pp. 94-95, 122-123; Archetti, 1998, pp. 263-286.
[25] Pini, 1997, coll. 2123-2128.
[26] Archetti, 2000, pp. 3-35; Archetti, 2001a, pp. 228-247.
[27] Gavinelli, 2008, pp. 35-90; Scaglia, 2008, pp. 121-166; Archetti, 2019a.
[28] Archetti, 1998, pp. 359-388; per uno sguardo regionale Archetti, 2001a, pp. 228-247.
[29] Pasquali, 1979, p. 57; Archetti, 1996, pp. 66-80.
[30] Pasquali, 1978, pp. 148-149; Baronio, 1996, pp. 18-45.
[31] Cortesi, 1988, docc. 5, 15, 17-18, 25-27, 30-31, 33, 35, 47-49, ecc.; Archetti, 1998, pp. 184-228.
[32] Archetti, 1998, pp. 185-192.
[33] Cortesi, 1988, docc. 6, 12, 15, 17-19, 21, 24, 26, 30-33, 35-36.
[34] Archetti, 1997, pp. 3-24.
[35] Archetti, 2002b, pp. 82-83.
[36] Biblioteca Queriniana di Brescia (= BQ), ms. D.II.23, Liber Rezzati 57, ff. 4r-14v, 25r-28r, 41v, 45r-46v, 59r-73r; sul patrimonio del cenobio, Archetti, 2020.
[37] Archetti, 1998, pp. 210-213.
[38] Archivio di Stato di Milano (= ASMi), Pergamene per fondi (= PF), cartella (= cart.) 94, pergamene (= perg.) anno 1121, 1172, 1180, 1190-1200, ecc.
[39] Archetti, 2017, pp. 26-51.
[40] Pasquali, 1979, pp. 54-58.
[41] Menant, 1993, pp. 58, 62-63, 150-153, 156, 208, 217, 225, 257, 293; Archetti, 1998, pp. 189-190, 217-218; Archetti, 2001a, pp. 238-242.
[42] Montanari, 1984, pp. 6, 11, 13-14; Cortonesi, 2002, pp. 217-229.
[43] È questo il senso del titolo del volume Vites plantare et bene colere (Archetti, 1996); per i lavori agricoli nella vigna, con un ampio riferimento documentario, Archetti, 1998, pp. 287-315; Archetti, 2014, pp. 15-19.
[44] Bettoni-Cazzago, Fè d’Ostiani (ed.), 1899, coll. 577-597, 525-677, 922-1039, 1149-1193, docc. 133, 153, 233, 329, anni 1234, 1251, 1286.
[45] Menant, 1993, pp. 129, 181, 226-227, 324 ss.
[46] Menant, 1993, pp. 227-228.
[47] Bettoni-Cazzago, Fè d’Ostiani (ed.), 1899, coll. 577-597, 625-677, 922-1039, 1149-1193, docc. 133, 153, 233, 329, anni 1234, 1251, 1286; Archetti, 1998, pp. 257-258.
[48] Bettoni-Cazzago, Fè d’Ostiani (ed.), 1899, coll. 652-677 passim.
[49] Bettoni-Cazzago, Fè d’Ostiani (ed.), 1899, coll. 962-1039, 1149-1193 passim.
[50] Crescenzi, 1789, pp. 248-249.
[51] Bettoni-Cazzago, Fè d’Ostiani (ed.), 1899, coll. 1149-1193 passim.
[52] Archetti, 1998, pp. 359-372, 435-475. Distinzione e vantaggi della vigna specializzata rispetto alla piantata sono ricordati dall’agronomo seicentesco Vincenzo Tanara (Tanara, 1687, p. 42); i suoi contemporanei invece non mostravano incertezza nell’adottare l’uno o l’altro dei due sistemi e, a seconda dell’ubicazione dei vigneti, sceglievano con cura i vitigni più adatti, come suggeriscono nelle loro opere Pier de’ Crescenzi, Agostino Gallo, Camillo Tarello, Andrea Bacci o Giovanni Battista Croce.
[53] Villa, Milesi, Scienza, 1997.
[54] Minelli, Panont, Villa, 1996; Archetti, 1998, pp. 287-315; Cortonesi, 2003, pp. 6-14.
[55] Un buon esempio è rappresentato dal contratto per la concessione di vigne nelle “Chiusure” di Brescia da parte della badessa dell’abbazia di Santa Giulia, ASMi, PF, cart. 84, perg. 18 febbraio 1195.
[56] Gatti, 1993, p. 93, docc. 2-3.
[57] Crescenzi, 1789, pp. 265-267.
[58] Crescenzi, 1789, pp. 289-296.
[59] Archivio Segreto Vaticano (= ASV), Fondo Veneto (= FV), I, perg. 3070-3071, 3075, 3885 (a. 1251, 1286).
[60] Crescenzi, 1789, pp. 309-315; Archetti, 1998, pp. 418-421.
[61] Il mosto, una volta ottenuto dalla pigiatura e torchiatura delle uve, poteva essere subito immesso sul mercato come vino nuovo a prezzo pieno (Pini, 1997).
[62] Da Passano et al., 2000, pp. 5-363; Baronio, 2003, pp. 547-584; Archetti, 1996, pp. 157-164.
[63] Conti (ed.), 1991, pp. 35, 39, 50-56, 74, 84, 122-123.
[64] ASV, FV, I, perg. 3018-3019 (a. 1236); Archetti, 1998, pp. 252-255.
[65] Per alcuni riferimenti alla legislazione e al commercio vinicolo in questa zona, insieme ai rimandi bibliografici a più ampi contesti regionali, Archetti, 1996, pp. 156-169; per la varietà dei vini, Archetti, 1998, pp. 435-475.
[66] Archivio storico diocesano di Brescia (= ASD), Fondo Mensa vescovile (= Mensa), registro (= reg.) 2, ff. 60r-615 (a. 1277); reg. 3, ff. 110v-114v, 121rv (a. 1295; Archetti, 1996, pp. 173-182); reg. 25, ff. 23v, 77r, 190v, 211v, 272r, 275v-291r (anni 1296, 1304, 1305, 1309).
[67] Archetti, 1996, pp. 74-95, 132-146, 165-182; Archetti, 1998, pp. 229-238.
[68] Gy, 2003, pp. 477-484; Archetti, 2003, pp. 293-304; Stroppa, 2019, pp. 287-321.
[69] Montanari, 1979.
[70] BQ, ms. G.V.11, Pacta dacionum Brixie, f. 135v (a. 1430).
[71] Archivio di Stato di Brescia, Archivio storico civico, Monastero di Santa Giulia, busta 7, f. 82r (Brescia, 8 gennaio 1294); Archetti, 2000, pp. 25-26, dove si mostra come le monache benedettine, sin dal medioevo, includessero nella clausura monastica parte delle pendici del colle Cidneo o del castello di Brescia. Si tratta di un’area di circa due ettari di vigneto, piantato di invernenga bianca, che attualmente costituisce la più estesa tenuta urbana europea vitata e con una varietà viticola prefillosserica (https://www.vignetopusterla.com/ilterroir/).
[72] ASMi, PF, cart. 64, perg. a. 1176, 1180-1219.
[73] ASMi, PF, cart. 84, perg. a. 1195; ASV, FV, I, perg. 2870 (a. 1224).
[74] Crescenzi, 1789, pp. 251-252.
[75] Gallo, 1566, p. 84.
[76] ASD, Mensa, reg. 25, f. 23v, 28r, 77r, 90v, 211v, 251r, 252r (a. 1296, 1303-1304).
[77] Gallo, 1564, pp. 66-67.
[78] Vitigni denominati groppello e pignolo si trovano documentati in Lombardia già nel XIII secolo, sia nel bresciano che nel milanese; diversa era però la considerazione dei vini ottenuti con le loro uve, come si apprende da Pier de’ Crescenzi o dall’agronomo Agostino Gallo (Crescenzi, 1805, p. 257; Gallo, 1566, p. 86; Archetti, 1998, pp. 126, 456, 456, 459-460).
[79] ASD, Mensa, reg. 25, ff. 211v, 251r (a. 1304).
[80] BQ, ms. G.V.11, Pacta dacionum Brixie, f. 53v (a. 1430).
[81] Conti (ed.), 1991, pp. 38, 47; Croce, 1606, pp. 53-54; Archetti, 1998, pp. 464-465.
[82] Archetti, 2002a, pp. 39-63.
[83] Archetti, 1998, pp. 429-430, 450-471.
[84] Valentini, 1898, pp. 74-75.
[85] Gallo, 1566, pp. 83-86; Gallo, 1564, pp. 66-68.
[86] ASD, Mensa, reg. 79, ff. 35r, 36r, 58r (a. 1450).
[87] Gallo, 1566, pp. 72-73.
[88] Ibidem.
[89] Gallo, 1564, pp. 66-68.
[90] Bettoni-Cazzago, Fè d’Ostiani (ed.), 1899, coll. 471, 474, a. 1237; Valentini, 1898, pp. 74-75.
[91] Valentini, 1898, pp. 74-75; Crescenzi, 1784, pp. 255, 258, 315.
[92] Gallo, 1564, p. 68.
[93] Archetti, 2019a.
[94] Gallo, 1564, pp. 72-73. Sulla figura e l’opera del grande agronomo bresciano, cfr. Pegrari (ed.), 1988; Benzoni, 1998, pp. 693-697; Scaglia, 2008, pp. 121-165; Archetti, 2001, pp. 6-57; Gavinelli, 2019; Archetti, 2019a.
[95] Gallo, 1564, pp. 71-73; Archetti, 2021.
[96] Gallo, 1564, pp. 71-72.
[97] Conforti, 1570; Archetti, 2001.
[98] Sull’originalità della trattazione di Agostino Gallo circa i vini frizzanti, spumanti o mossi, in rapporto agli agronomi tardo medievali e rinascimentali, si vedano le osservazioni di Gaulin, 1991, pp. 46, 50-51; Gaulin, 1994, pp. 80-81; Archetti, 1998, pp. 464-468; Archetti, 2001, pp. 15-45; Archetti, 2019a.
[99] Conforti, 1570; Archetti, 2001; Archetti, 2021.
[100] Gallo, 1571; Tenenti, 1988, pp. 9-21.
[101] Lantieri, 1560; per il rapporto tra agricoltura e villa nella scelta di vita proposta all’aristocrazia del tempo, Poni, 1988, pp. 73-108.