LO SCHERMO TRA LE PAGINE. PER UNA LA RILETTURA DE LA BELLA ADDORMENTATA NEL BOSCO, GENESI E METAMORFOSI DI UNA FIABA

SCREEN INTO THE PAGES. REVIEWING THE SLEEPING BEAUTY, GENE-SIS AND METAMORPHOSIS OF A FAIRY TALE

Angela Articoni

Universidad de Foggia

Riassunto:

La metafora della “Bella Addormentata”, archetipo del femminile che si risveglia solo con “il bacio del vero amore”, inteso come bisogno imprescindibile della figura maschile per la realizzazione del proprio sé, va mutando attraverso il rapido evolversi delle trasformazioni sociali e culturali. I film Maleficent e La belle endormie ribadiscono il valore del femminile all’interno delle narrazioni simboliche.

Parole chiave:

Letteratura per l’infanzia, La Bella Addormentata, fiabe, cinema.

Abstract:

The metaphor of “Sleeping Beauty”, the archetypal female that only wakes up with “love’s true kiss”, understood as essential of the male figure needed for the realization of one’s self, it is changing through the rapidly changing social and cultural transforma-tions. The movie Maleficent and La belle endormie reaffirm the value of the feminine within the symbolic narratives.

Key word:

Children’s literature, Sleeping Beauty, fairy tales, cinema.

Introduzione

La fiaba antica si è innovata non solo nell’adozione dei potenti mezzi espressivi e figurativi attuali, capaci di evocare con efficacia un mondo favoloso, ma anche e soprattutto nello scavare fra conscio e inconscio e nel mostrare l’animo dei protagonisti sofferente, complesso, assetato di relazione, soggetto a evoluzione e sviluppo.

Il racconto che tutti padroneggiamo, e che ha già tante origini e versioni diverse se pure con connotazioni simili, viene riproposto dal cinema con diverse angolazioni: nel cartone animato del 1959 (Geronimi, et al.), c’è la visione rosea della Disney del bene che trionfa sul male, Malefica, la strega cattiva che soccombe, la principessa Aurora sposa il principe e tutti vissero felici e contenti. Maleficent (Stromberg, 2014), invece, adotta il punto di vista della strega della quale vengono mostrati moti interiori e un’intensa evoluzione psicologica: non più icona del Male ma personaggio articolato, con un dinamismo interiore caratterizzato da vari atteggiamenti umani, a cominciare dalla dualità etica e comportamentale Bene/Male che nelle fiabe viene di solito mostrata in personaggi opposti, incarnazioni stereotipate e astratte di attitudini e modalità relazionali. Inoltre rivela come il Male possa essere reazione a un torto subito e l’odio sia amore cambiato di segno, quasi a significare che il modo d’essere originario sia quello positivo e il Male conseguenza di interventi aggressivi, creazione umana sconosciuta allo stato di natura.

La belle endormie (Breillat, 2010) è una riflessione sulle identità di genere e sui loro confini, sul conflitto tra natura e cultura, e quindi tra destino e scelta (l’identità come imposizione o come costruzione individuale), sul trascorrere del tempo (gli orologi sono spesso presenti nelle inquadrature), sull’amore, sulla formazione e sui riti che scandiscono il passaggio dall’infanzia all’età adulta.

Le fiabe, afferma Marie-Louise von Franz, racchiudono un tesoro di saggezza naturale e profonda ed «esprimono contenuti inconsci per i quali la mentalità collettiva non possiede un linguaggio» (1983: 15). Il racconto di Rosaspina (Grimm, J. & W., 2012: 170-181) ovvero de La bella addormentata (Perrault, 2016: 5-27), è l’occasione per sostenere la rinascita creativa della donna, quanto il motivo universale della “liberazione della principessa” o, come nel caso di Demetra e Kore, del ricongiungimento dell’aspetto materno con il Sé fanciullesco e creativo, il risveglio della coscienza e dei modi atti a conseguirla. Le fiabe sostengono e incoraggiano il processo di individuazione della donna (1983: 33 e segg).

Per Bruno Bettelheim La bella addormentata nel bosco è una narrazione che ribadisce la necessità di una prolungata e riflessiva concentrazione su se stessi. Lo psicanalista asserisce che sia i maschi sia le femmine, durante il periodo dell’adolescenza, hanno bisogno di periodi di quiete, quasi di passività, oltre che di movimento, affinché si realizzino condizioni propizie per il loro armonioso sviluppo: un lungo periodo di quiescenza, di riflessione e di introspezione può aiutare il bambino e la bambina a crescere e ad affrontare il futuro in modo cosciente e giudizioso (1990: 216 e segg).

Le mille identità di una fiaba

Marie-Louise Tenèze, portando a termine una ricerca iniziata da Paul Delarue, stila un catalogo che analizza centinaia di raccolte, Le Conte populaire français (1997), e prende in considerazione solo quattro versioni della fiaba: Troila e Zellandina - dal III libro di Perceforest1 - la novella catalana di Frère-de Joie, Soeur-de-Plasir, del XIV secolo, il Pentamerone di Basile, edito fra il 1634 e il 1636 (ma che potrebbe essere stato scritto su ispirazione della versione italiana del Perceforest del 1588), e ovviamente La bella addormentata nel bosco di Perrault, la cui prima versione, manoscritta, è del 1695 (Soriano, 2000: 194).

Nel Roman de Perceforest, di uno scrittore anonimo del nord della Francia, la protagonista figlia di un re, Zellandina, è “amata” da un dio, esattamente dal dio Marte. Il protagonista maschile del romanzo francese si chiama Troilo come il bellissimo figlio di Ecuba e di Priamo (in altre versioni considerato figlio di Apollo), fratello di Polissena. Troilo è molto devoto a Venere e a lei si rivolge per coronare il suo amore per Zellandina, sua compagna di giochi fin dalla fanciullezza, con la quale si scambiò un anello come pegno d’amore. Ma Zellandina muore (cade in letargo) non appena tocca un fuso, una lisca le si conficca in un dito e il padre la rinchiude in una torre deponendola completamente nuda su un letto. Quando Troilo viene a conoscenza della “malattia” che ha colpito la sua amata, con l’aiuto di Venere e di Zeffiro, un demone-folletto, scala la torre e, trovandosi davanti la sua bella nuda sul talamo, si unisce a lei stuzzicato e “infuocato” da Venere. Verrà concepito un bambino e sarà proprio la nascita del figlio a provocare il risveglio di Zellandina, poiché, venendo al mondo, il piccolo rimuoverà il filo di lino che provocava il sonno della madre (Franci, Zago, 1984: 33-55).

La versione italiana, Troilo e Zelanda2 riflette il perbenismo che pervade la seconda metà del Cinquecento: il testo originale conteneva troppe allusioni erotiche e la traduzione elimina le parti più scabrose. Rimossa la figura di Venere, il momento della deflorazione viene descritto pudicamente: «Il cavaliere si mise in letto e la damigella venne a perdere il suo nome chiamandosi donna» (1984: 83).

Frère-de Joie, Soeur-de-Plasir (Thiolier Méjean, 1996) ha lo stesso impianto stilistico del Roman de Perceforest: “Sorella di Piacere” muore di colpo e il padre, che non si rassegna alla morte della bellissima figlia, fa costruire un castello incantato dove la depone. Il principe “Fratello di Gioia” trova il modo di giungere fino a lei a cui si congiunge lasciandola incinta e ripartendo subito dopo per cercare la medicina che la farà risvegliare. La principessa, nel frattempo, partorisce «senza dolore e senza pericolo» (Franci, Zago, 1984: 66). Con l’aiuto di un uccello parlante la ragazza magicamente rivive e allibita scopre che non solo ha perso la verginità, ma ora ha un figlio illegittimo. Estremamente interessante e degne di nota le proteste della giovane donna al pennuto che le racconta tutto ciò che è avvenuto con il principe:

[…] egli ebbe l’audacia di prendermi senza il mio consenso. Se egli avesse saputo aspettare che io gli dessi la gioia del mio amore, e che io facessi la mia scelta, lo considererei nobile. Non v’è al mondo donna tanto spregevole che la si possa toccare o prendere qualcosa di suo senza chiedergliene il permesso: le cose prese con la forza non hanno valore. […] Chi tocca una donna senza chiedergliene il permesso non è mai stato considerato né nobile, né valente. E nessuna donna è degna e nobile se si lascia toccare senza averlo permesso (1984: 68).

In Sole, Luna e Talia da Lu cunto de li cunti ovvero lo trattenemiento de peccerille di Giambattista Basile (1985: 443-448), alla figlia di un gran signore di nome Talia, sapienti e indovini provenienti da ogni parte del regno predicono il destino: la bambina avrebbe corso un pericolo mortale a causa di una lisca di lino. Ovviamente il padre ordinò che nel suo palazzo non entrasse lino, né canapa, né nulla di simile, per sfuggire a questa sciagura.

Ma, essenno Talia grannecella e stanno a la fenestra, vedde passare na vecchia che filava; e, perché n’aveva visto mai conocchia né fuso e piacennole assai chello rocioliare che faceva, le venne tanta curiositate che la fece saglire ‘ncoppa, e, pigliato la rocca ‘mano, commenzaie a stennere lo filo, ma pe desgrazia, trasutole na resta de lino dintro l’ogna, cadette morta ‘n terra (1985:443).

Anche nella fiaba di Basile la bella addormentata Talia è vittima, durante il sortilegio, dello stupro di un re:

All’utemo arrivaie a la cammara dove steva Talia comme ‘ncantata, che vista da lo re, credennose che dormesse, la chiammaie; ma, non revenenno pe quanto facesse e gridasse e pigliato de caudo de chelle bellezze, portatola de pesole a no lietto ne couze li frutte d’ammore e, lassatola corcata, se ne tornaie a lo regno suio, dove non se allecordaie pe no piezzo de chesto che l’era socciesso (1985:444).

Perrault in La Belle au bois dormant, La bella addormentata nel bosco (Perrault, 2016: 5-27), riprende i temi dalla storia di Basile Sole, Luna e Talia ma li addolcisce molto. Essendo la dedicataria dell’opera la nipote del re di Francia e avendola data alle stampe rivolgendosi a un pubblico borghese, elimina i tratti perturbanti e scabrosi per enfatizzare virtù morali quali la pazienza e la passività della donna e «l’incantesimo finisce non appena il principe si mette in ginocchio di fronte a lei» (Soriano, 2000: 194-195).

Rosaspina dei F.lli Grimm (2012: 170-181) è la versione più nota e più breve, che si conclude con le nozze del principe con la principessa, risvegliata da un casto bacio del suo futuro sposo. «Di tutte le versioni [...] quella dei fratelli Grimm è indubbiamente la più vicina all’idea che tutti più o meno abbiamo della fiaba classica: è semplice, chiara, diretta, assolutamente priva di conflitti psicologici, al di fuori del tempo, dello spazio e della realtà» (Franci, Zago, 1984: 119).

Nella narrazione dei Grimm la principessa è chiamata Rosaspina (Dornröschen) con riferimento ai cespugli di rovi che circondano il castello durante il suo sonno centenario, rendendolo irraggiungibile; questo nome le viene attribuito non dai genitori, ma dal popolo, quando, con il passare degli anni, ella si trasforma in una figura leggendaria. Tale appellativo sarà utilizzato nel film Disney, nella parte (del tutto inesistente nelle fiaba tradizionale) in cui Aurora è nascosta nel bosco dalle fate.

Sleeping Beauty e Maleficent: dal film d’animazione al live action

Malefica, la strega più accattivante e terribile delle fiabe Disney, approda al cinema in carne e ossa, interpretata da Angelina Jolie. Il film la estrapola da uno dei cartoni animati più amati della Disney, Sleeping Beauty (Geronimi, et al., 1959) ispirato alla fiaba di Perrault, La bella addormentata nel bosco (2016: 5-27) e a Rosaspina dei Grimm (2012: 170-181), anche se con molte differenze: dal nome della principessa, Aurora, che nella versione perraultiana è quello della figlia, al numero delle fate, solo tre (Perrault ne enumera otto, Grimm addirittura tredici), alla presenza costante della strega Malefica. Anche nel film animato la sua malvagità è scatenata dal non essere stata invitata al battesimo della piccola principessa, futura Bella Addormentata, mancanza che le farà lanciare la maledizione del fuso e del sonno senza fine.

All’epoca il cartoon non ottenne lo stesso successo di pubblico dei precedenti lungometraggi, fu «un disastro commerciale in Technirama costato l’astronomica cifra di sei milioni di dollari» (Ėjzenštejn, 2004: 127). Per trent’anni fu l’ultimo adattamento di una fiaba prodotto dalla Disney, anche a causa dell’accoglienza discordante della critica, e lo Studio ritornò al genere solo dopo la morte di Walt Disney, con l’uscita de La sirenetta (Clements, John Musker, 1989), fiaba celeberrima di H.C. Andersen, di cui è previsto anche un live action: quella del remake con veri attori è una prassi ormai consolidata in casa Disney.

Il remake viene equiparato alla leggenda, un racconto straordinario che è sedimentato nella memoria e perciò provoca emozioni, inoltre accontenta la nostra voglia di rassicurazione perché, come il bambino che costruisce il suo io attraverso le storie di cui conosce ogni particolare, ma le vuole ascoltare ancora e ancora, siamo ben felici di vedere e rivedere le stesse immagini. Ecco perché, fin dalla nascita del cinema, si saccheggiarono i classici della letteratura e del teatro che incontrarono, immancabilmente, il gradimento del pubblico (Articoni, 2014: 143-144).

Secondo la critica Malefica è il personaggio caratterizzante del cartoon e forse una delle “cattive” Disney meglio definite: domina ogni scena in cui appare. Sembrerebbe la mutazione negativa della strega Grimilde di Biancaneve (Hand, 1937) ma, a differenza della sua antenata, l’antagonista della principessa Aurora straborda di fascino maligno, a partire dalla conformazione fisica: tanto è morbido e sinuoso il segno per la dolce protagonista Aurora, così è stilizzato e spigoloso quello della villain Maleficent. Inoltre l’animatore Marc Davis creò per “la fata cattiva” un look impeccabile curando sia il fisico sia l’abbigliamento, sofisticato, non trasandato e non da classica strega: nella sua ricerca stilistica, tra opere d’arte del Medioevo, si imbatté nell’immagine di una religiosa vestita in modo elegantemente diabolico con mantelle fluide e abiti simili a fiamme. Si concentrò proprio sulla comparsa del fuoco - propose un abito in nero e rosso, che poi venne tramutato in nero e lavanda - la incoronò con “le corna del diavolo” e le disegnò alfine anche ali di pipistrello (Seastrom, 2014).

Maleficent: da fata a strega

Maleficent (Stromberg, 2014) è il nome della pellicola anche in italiano, mentre nel doppiaggio la strega è denominata Malefica, come nel cartoon Disney da cui è tratto il personaggio protagonista. La scelta appare filologicamente incongruente e illogica: in inglese l’aggettivo maleficent è inusitato e altisonante, ma viene subito riconosciuto il prefisso mal–, tipico di parole con connotazioni negative come malignant e malevolent. Richiama inoltre l’aggettivo magnificent, “maestoso, imponente”, appropriato per un personaggio che incute soggezione (Zimmer, 2014). Probabilmente la Disney ha fatto questa scelta per avere sia un fil rouge con il cartone, sia per un’internazionalizzazione del titolo, un nome unico globale per motivazioni di marketing.

Maleficent, che ha incassato ben 758 milioni di dollari in tutto il mondo, indaga sul passato e sulle motivazioni che hanno trasformato la fata in strega, “costringendola” a lanciare il maleficio sulla figlia del re Stefano. Prima che Malefica divenisse l’incarnazione femminea del male, cresceva serena e felice nella Brughiera in totale armonia con tutte le altre creature magiche. Come sottolinea la voce narrante del film «Non c’erano re o regine perché le creature si fidavano tra loro», e la foresta era un mondo giocoso e affascinante, con paesaggi emozionanti, un territorio incontaminato in cui le creature magiche prosperavano in libertà e in armonia con la natura che lei sorvolava con le sue immaginifiche ali nere, mentre nel regno vicino, quello degli uomini, regnava l’invidia e la sete di potere.

Conosce Stefano, un ragazzino suo coetaneo, un umano, abbastanza curioso e impavido da spingersi nella Brughiera per rubare una gemma. La loro amicizia, man mano che i due crescono, lascia il posto a un sentimento più profondo e, al sedicesimo anno di Malefica, Stefano le dona “il bacio del vero amore”.

I conflitti tra umani e creature magiche si fanno però sempre più aspri, sfociando in una guerra, e la nostra fata è in prima linea a difendere la sua terra natia e i suoi abitanti. Nel frattempo per Stefano si presenta l’occasione di divenire re poiché l’anziano sovrano regnante emana un bando: chi riuscirà ad uccidere Malefica verrà nominato suo successore.

L’uomo, assente da tempo immemore dal mondo fatato e dalla donna che gli aveva donato il cuore per inseguire i suoi sogni di gloria e la sua brama di potere, ritorna nella Brughiera e viene accolto con l’antico sentimento; addormenta la donna con un sonnifero e, accecato dall’ambizione, pur non avendo il coraggio di ucciderla, compie uno scempio e un delitto forse ancora peggiore: le taglia le ali e le porta con sé come testimonianza della sua vittoria.

È un assalto altamente simbolico, con sfumature e rimandi all’atavica brutalità nei confronti delle donne, una mutilazione, una deturpazione fisica che ha uno specifico riferimento alla violenza di genere: il maschio è riuscita a ferirla, a sottometterla, a tarparle le ali, e non solo in senso metaforico. È una delle scene più penose della storia del cinema, soprattutto considerando la produzione Disney: Malefica è stata violata, oltraggiata, profanata, nel suo mondo, la sua splendida, rigogliosa ed accogliente Brughiera, dall’unico umano in cui riponeva fiducia. Il risveglio è amaro, drammatico, funesto: l’urlo straziante della fata è la voce di tutte le donne tradite.

Tale inconcepibile tradimento, avvenuto di notte, in un momento di intimità, è un atto di violenza così brutale da causare la perdita repentina dell’innocenza da parte di Malefica e la lacerante presa di coscienza della distanza tra sogno e realtà, trasformando la Brughiera in un regno analogo a quello degli uomini, dove la fata è la nuova, cupa sovrana. Si veste di dolore e ghiaccia la foresta, sottomette gli esseri magici che ora la temono - non è più la loro protettrice ma la loro “padrona infittisce la selva che diviene nera ed impenetrabile e separa il suo mondo da quello degli umani.

La protagonista è una fata dalle grandi ali, un simbolo che riemerge dalla preistoria e dalla più importante divinità che veniva adorata 5.000 anni a.C., la Dea Madre, o Dea Uccello. La Dea Madre è ovviamente legata alla terra, alla sua capacità nutritiva e generativa, e alla natura, in quanto tale è dea sovrana degli animali e della vegetazione e come Malefica del film, difende le sue creature e le ama profondamente. Dea strettamente collegata a Era, Demetra e Persefone considerate “dee vulnerabili” dallo studioso Bolen (1991: 27 e segg.):

Le tre dee vulnerabili incarnano i ruoli tradizionali di moglie, madre e figlia. Sono archetipi dell’orientamento al rapporto con il maschile, quelle dee cioè la cui identità, il cui benessere dipendono dalla presenza, nella loro vita, di un rapporto significativo; esprimono il bisogno di appartenenza attraverso il legame affettivo. Sono vulnerabili nella misura in cui dipendono emotivamente dagli altri. Nel mito venivano violentate, rapite, dominate o umiliate da divinità maschili (Vallino, Montaruli, 2016: 46)

Divinità sensibili e forse fragili ma che possono trasformarsi in personaggi oscuri e terrificanti per contrastare il potere, il tradimento e la malvagità, umana e divina. Tali figure femminili arcaiche con questa duplice natura sono innumerevoli: Ishtar, dea dell’amore, della fertilità e dell’erotismo, ma anche della guerra, nella mitologia babilonese; Iside, anch’ella dea della maternità, della fertilità, ma temuta maga; Atena, dea della sapienza, delle arti, ma anche della strategia militare; Ecate, la dea della magia, degli incantesimi e degli spettri. Forse la figura che maggiormente possiamo associare a Malefica, è Lilith, per gli antichi ebrei la prima moglie di Adamo (quindi precedente ad Eva) che fu ripudiata e cacciata via perché si rifiutò di obbedire al marito, che pretendeva di sottometterla, specie sessualmente, divenendo così uno spirito terribile, una signora dell’aria.

“Il bacio del vero amore”

A fare le spese dell’ira della strega, la neonata Aurora figlia di re Stefano, sulla quale Malefica scaglia la nota profezia, lievemente riadattata:

La principessa crescerà in grazia e bellezza, amata da tutti coloro che la circondano. Ma … prima che il sole tramonti sul suo sedicesimo compleanno, ella si pungerà il dito con il fuso di un arcolaio, e cadrà in un sonno mortale! Solo il bacio del vero amore potrà spezzarlo e nessun potere ultraterreno potrà annullare il maleficio!.

Nella realtà e con il passare del tempo Malefica si affeziona alla bambina, se ne prende cura, poiché le fate che se ne dovrebbero occupare sono totalmente incapaci. Subisce una forte attrazione per la piccola, anche se non vuole ammetterlo, la chiama “bestiolina”, prova a spaventarla, ma la bimba, dolce e fiduciosa, le sorride. La Regina della Brughiera lentamente diviene la sua guida silenziosa, la sua vera fata madrina e un sentimento nuovo va crescendo nel suo cuore, un amore che travalica l’odio e la rabbia che nutre nei confronti di re Stefano: comprende che non è giusto usare Aurora come “merce di scambio” per il suo dolore. Prova quindi ad annullare il suo sortilegio, ma invano: il maleficio si realizza. L’unica soluzione è “il bacio del vero amore” ma Filippo, il principe costretto a baciare Aurora, non riesce a svegliarla poiché non si può pretendere il vero amore da un ragazzo incontrato un paio di giorni prima.

La Disney cavalca l’onda della rottura degli stereotipi e della modernità e quando Malefica, convinta di averla perduta per sempre, le bacia la fronte chiedendole perdono, Aurora si risveglia. «Non c’è amore più vero» - dice Fosco3. Di quale amore stiamo parlando? Di quello tra una madre, seppure “adottiva”, e una figlia? È questo il più vero? Trascende qualsiasi rapporto tra un uomo e una donna? Ci piace pensare che, in realtà, possa essere la riconciliazione del femminile avverso al femminile, e che si possa contare – ancora e sempre – sull’amore e sulla solidarietà tra donne: il patriarcato del Regno degli Uomini, guidato dalla cultura della paura, della rabbia e della violenza, può essere soppiantato dalla democrazia del matriarcato della Brughiera solo quando Malefica, la donna, abbandona le emozioni negative che la consumano (Justice, 2014: 196).

Un percorso doloroso dopo la perdita dell’integrità e la lunga strada che deve percorrere per ritrovarla. Ha lanciato un anatema soprattutto verso se stessa, convincendosi che il vero amore non esiste, e il suo sogno di amore infranto, proiettato sulla neonata, resterà tale finché non lascerà germogliare nuovamente il sentimento perduto: un amore più evoluto, più generativo, rivolto ad una creatura “altra da sé” e non un amore narciso. Solo dopo averlo riconosciuto e accolto ritroverà la sua interezza, la sua compiutezza e perfezione, e quindi le sue ali per ritornare a volare.

Luci e ombre de La Belle Endormie 

Iscritta in quello che viene definito “New French Extremity”, Catherine Breillat è nota per i suoi discussi film incentrati sui conflitti e le rivalità tra i sessi, temi che compaiono anche nei suoi romanzi. Lo sguardo che diviene voyeurismo, la provocazione e la trasgressione, sono caratteristiche del suo cinema, e la sessualità femminile, scrutata, analizzata, esplorata e nel contempo ricusata, disconosciuta e sofferta diviene strumento e tramite per un percorso intimo nell’inconscio, quasi come in una seduta psicanalitica perturbante. Fin dall’inizio della sua carriera, Breillat ha raffigurato la passione come fortemente legata alla sofferenza e ha considerato lerotismo come mezzo per esplorare i demoni delle donne e dei lati oscuri delle loro anime: attraverso i suoi film vuole affermare il valore della diversità, delle relazioni umane e del gioco della seduzione.

Sia che scrivesse, recitasse o dirigesse film, Breillat diventò famosa come provocatrice, esplorando la sessualità delle donne e la vergogna che queste sono sempre state costrette a provare sotto lo sguardo maschile. Quasi tutti i suoi romanzi e film principali sono ritratti sfrontati di relazioni sessuali che possono essere descritte al meglio come nodi e conflitti intensi in cui alcune donne cercano di guadagnare un senso del sé scoprendo e al tempo stesso reclamando il proprio desiderio sessuale (Zipes, 2012: 67-68).

Dopo la finissima e sofisticata rivisitazione dell’antesignano di tutti i mariti violenti con la pellicola Barbe bleue (Breillat, 2009), da alcuni considerata come la miglior mise-en-scène di The Bloody Chamber (1979) di Angela Carter, come decostruzione e diritto alla variazione, che la trascrizione delle fiabe orali ha cancellato, Breillat - in effetti molto affine allo spirito malizioso e poco convenzionale della compianta scrittrice britannica - continua la sua esplorazione del mondo delle fiabe con La belle endormie (Breillat, 2010), tra meraviglioso e crudeltà, questa volta volgendo lo sguardo decisamente verso l’infanzia e la sua crescita emotiva oltre che fisica.

Rispetto a Barbe bleue, lo sguardo filmico verso Les contes di Perrault cambia radicalmente poiché Breillat non si accontenta di rifrangere il racconto attraverso il prisma del suo temperamento: usa invece il pretesto della narrazione per bambini come una sorta di camouflage per compiere uno dei suoi salti più audaci nell’astrazione. La regista asserisce che La Belle Endormie è un lavoro diverso poiché desiderava che la giovane protagonista vivesse innumerevoli esperienze, come tante vite, «attraverso un percorso unico ed intimo racchiuso in un’unica esistenza, alternandola con un amore difficile, a metà tra la maturità dell’età adulta e la fanciullezza» (Tarasco, 2010). Pellicola talmente fuori dagli schemi che è stata oggetto di giudizi anche feroci da parte della critica, soprattutto maschile4: Jack Zipes, per esempio, che ha apprezzato il remake Barbe bleue (2012: 67-72), ha affermato che Breillat «pecca di pretenziosità e cedimenti al mercato» e ha addirittura definito il film un pastiche (2012:67)5.

Riteniamo invece che, effetti speciali e rimandi al cinema fantastico e irreale di Georges Méliès e  alla versatilità, originalità e capacità espressiva di Jean Cocteau, allusioni erudite alla pittura classica, tracce, richiami e prestiti da Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll (2009: 37-144) e soprattutto da La regina delle nevi di H.C. Andersen (1998: 199-225), ne fanno un racconto in cui «l’Amore sognato» perde l’aura luminosa e celestiale e si mostra in tutta la sua aspra realtà, il linguaggio filmico spazia dall’onirico al carnale pur mantenendo una forte carica estetica, e innocenza e moralità vengono osservate attraverso l’ordito della tela fiabesca.

Pensiamo sia importante, ancora una volta, rimarcare le parole dell’autrice, secondo la quale:

Questa è la storia di una giovane ragazza che ricrea il suo mondo. L’infanzia è un limbo lungo e difficile che precede la gioventù. Questa giovane ragazza cresce e diventa un’adolescente che crede di sapere tutto della vita. Ma la vita non è una fiaba, e l’amore durante l’adolescenza è come un maternità precoce, che conduce a un altro stato di vita. E si ritorna alla vita reale. Non è più una favola, ma il racconto di una vita che sta per iniziare (Mascagni, 2010).

La belle endormie è dunque una riflessione sull’identità di genere e sui suoi confini, sul contrasto tra natura e cultura, e tra destino e scelta (l’identità come imposizione o come costruzione individuale), sul trascorrere del tempo, sulla formazione e sui riti che scandiscono il passaggio dall’infanzia all’età adulta e, ovviamente, sull’amore: possibilità di liberare più testi nello stesso testo, più significati dallo stesso significante, un frame dentro un altro frame, come una sorprendente matrioska.

La bella addormentata come metafora di crescita

C’era una volta, in un passato e in un luogo indefinito, come sempre nelle fiabe, un castello dove nasce una bambina, Anastasia. La fata Carabosse6 taglia il cordone ombelicale della neonata, mentre arrivano in ritardo tre giovani fate trafelate, troppo tardi per Carabosse che lancia il maleficio, del quale però non si comprende il motivo: al compimento del sesto anno di vita la bambina si pungerà la mano e morirà. Le giovani scoppiano a piangere! Il loro ritardo non meritava una tale punizione. Ora dovranno mitigare l’incantesimo fatale, scongiurare questa orrenda predizione: invece di morire Anastasia si addormenterà a sei anni per un secolo e si risveglierà sedicenne (anticipandolo ai sei, anziché ai sedici anni, per superare la noia dell’infanzia); ma dormire per cento anni sarebbe monotono se non le concedessero di girovagare in lungo e in largo in sogno durante questo periodo di sonno7.

Prima di essere immersa nelle sue visioni oniriche, assistiamo ai primi anni di vita della bambina che si rifiuta di dormire (ha decine e decine di sveglie intorno al letto, premessa dell’importanza del concetto del tempo nel film) e si sente confusa sulla sua sessualità: insiste per essere chiamata Vladimir e in una delle sue curiose escursioni nel dizionario incontra il termine “ermafrodita”.

Con il sonno e il sogno indotti, la piccola entra in un nuovo mondo, attraverso un sinistro passaggio sotterraneo, con echi di avventura di Alice, che porta in un ambiente rurale nel quale viene “adottata” da una famiglia modesta: qui si confronterà con la prima figura maschile, Peter, un ragazzino incontrato per caso e velocemente perduto, il futuro principe che dovrebbe risvegliare la bella dormiente.

Peter viene portato via dalla Regina delle Nevi e così principia un percorso in cui lasciare alle spalle l’infanzia, mettere in discussione la propria identità e un onirico meticciamento tra fiabe: Catherine Breillat promette La Bella Addormentata e invece, a sorpresa, dopo l’incipit, ci ritroviamo in un “mondo altro”, un racconto vergato da più linee testuali, un fantastico viaggio nel tempo che ripercorre i luoghi de La Regina delle Nevi, ma che non disdegna trovate felliniane nella stuttura dei personaggi come il nano in uniforme, la domestica carceriera punk, il Principe e la Principessa albini, la tribù dei briganti, la barbona della Lapponia.

Alla fine delle mille peripezie affrontate per ritrovare Peter, Anastasia mangia da una cespuglio alcune bacche, pur sapendo che sono velenose: non si può morire in un sogno; ma quei chicchi rossi segneranno la morte dell’infanzia e la nostra bambina si ritroverà sedicenne, coperta di polvere, a svegliarsi nel palazzo che apparteneva alla sua famiglia e accanto al suo letto un bel giovane di nome Johan, non il principe azzurro, ma un ragazzo vestito di nero: il sogno di Anastasia è finito?

Dopo un primo timido approccio, Johan la lascia sola e inaspettatamente giunge la sua amica brigante, ormai cresciuta, con la quale vive la sua prima esperienza sessuale adulta. Viene lecito domandarsi se per caso la nostra protagonista stia ancora sognando, ma a questo interrogativo non è facile rispondere poiché Breillat non altera in modo significativo il flusso di fantasia e realismo, del soggettivo e dell’oggettivo, dopo che Anastasia ha aperto gli occhi.

Ritorna Johan e proseguono una timida ma intensa esplorazione pre-sessuale: la giovane si è risvegliata in un abito vecchio stile, con decine di bottoncini di chiusura, che permette al ragazzo di aprire piano piano, entro rigorosi limiti numerici. E sotto il vestito un corsetto, geniale e sosfisticata presenza narrativa che permette a Breillat di sottolineare la chiusura dell’adolescente al sesso e, alla fine, la liberazione “fittizia” dal giogo dei lacci che assicurano il corpetto. Sciolte una dopo l’altra le stringhe del vecchio scomodo bustino, il lungo vestito bianco dell’innocenza viene sostituito da minigonna e calze velate: la bellissima inquadratura finale mostra una calza smagliata della ragazza e un graffio ancora sanguinante sulla schiena di lui. Niente più fiabe, siamo nel regno dei vivi, o dei morti: la conoscenza carnale tra uomo e donna, attraverso i secoli, è semplicemente una storia di violenze.

E a chi ha chiesto a Catherine Breillat quante storie avessero contribuito alla messa in opera di La Belle Endormie

Penso che lo snodo cruciale della storia sia la scelta di “addormentarsi” all’età di 16 anni e vivere da bambini per tutta la vita. Vivere come un’eroina che passa la propria esistenza come un’esperienza. Quella della “mia” Anastasia è una fanciullezza illibata che si trascina fino a sedici anni, non solo perché vergine sessualmente ma perché vergine nella vita e nei sentimenti. La protagonista è una combattente ed è qui che sta lo charme della favola (Tarasco, 2010).

La Belle Endormie non è una fiaba, ma il racconto di una vita che inizia, anzi due, perchè Anastasia è incinta.

conclusione

La fiaba è un medium rassicurante e spensierato per riflettere sul mondo e proietta all’esterno, in termini assoluti, le paure, i desideri, i rancori, le emozioni più pure e quelle più torbide. Le storie colonizzate e trasformate dal cinema hanno forse poco a che fare con i vari e strambi personaggi che la tradizione popolare ha saputo creare, pur ambientandosi in luoghi sperduti e pieni di magia, ma riguardano tutti noi, nessuno escluso, in quanto persone, in quanto esseri umani. Sono “romanzi di formazione” in forma visiva, che incosciamente ci guidano verso una maggiore consapevolezza della nostra vita e quotidianità.

Se si esclude il cartone animato che propone una Bella Addormentata profondamente americana, una dolce fanciulla bionda che corrisponde all’ideale femminile promosso in America nei primi anni postbellici, divenuto il bersaglio preferito delle polemiche sociologiche e psicologiche e che diede spunto a innumerevoli parodie polemiche - fra tutte le graffianti versioni in chiave femminista di Angela Carter - le riscritture e le reinterpretazioni che abbiamo analizzato sono metafore di una crescita femminile “cosciente” complessa e non banale.

In Maleficent non si ripete lo schema narrativo che scinde il mondo femminile fra fate-madri-buone intrise di dolcezza, remissività e dedizione ad libitum e streghe ribelli- crudeli-mortifere: nessuna univocità, nessun dualismo, la vita è molto più complessa. E quando le donne accolgono la loro complessità ed esprimono la loro rabbia per le offese subìte, senza restarne distrutte o distruggere, qualcosa di bello e di vitale si è salvato.

Così come Breillat ne La belle endormie, un sogno dentro un sogno, attraverso l’immaginazione fiabesca esplora un’intera educazione sentimentale, dove la conoscenza carnale tra uomo e donna, attraverso i secoli, è semplicemente una storia di violenze,

dove innocenza e moralità vengono osservate attraverso le increspature dell’ordito fiabesco, un gioco di slittamento del senso che racconta meglio di altre forme conosciute quello per niente divertente del desiderio e dell’orrore identitario dove il testo della tradizione riacquisisce tutto il potenziale combinatorio e aperto del racconto orale (Faggi, 2010).

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Filmografia

Barbe bleue, Regia Catherine Breillat, Soggetto Charles Perrault, Sceneggiatura Catherine Breillat, Francia, 2009.

Biancaneve (Snow White and the Seven Dwarfs), Regia David Hand, Soggetto F.lli Grimm, Sceneggiatura Dorothy Ann Blank et al., USA, 1937.

La belle endormie, Regia Catherine Breillat, Soggetto Charles Perrault, H.C. Andersen, Sceneggiatura Catherine Breillat, Francia, 2010.

La sirenetta (The Little Mermaid), Regia Ron Clements, John Musker, Soggetto Hans Christian Andersen, Sceneggiatura Ron Clements, John Musker, USA, 1989.

Maleficent, Regia Robert Stromberg, Soggetto Charles Perrault, Fratelli Grimm et al., Sceneggiatura Linda Woolverton, USA, 2014.

La bella addormentata nel bosco (Sleeping Beauty), Regia Clyde Geronimi et al., Soggetto Charles Perrault, Sceneggiatura Joe Rinaldi et al., USA, 1937.


1 Esistono quattro manoscritti, due dei quali, incompleti, sono alla Biblioteca Nazionale di Parigi: Ms. Fr. 345-348, Libri I, II, III, V. Ms. Fr. 106-109, Libri I e IV. Un esemplare completo è custodito alla Bibliothèque de l’Arsenal di Parigi: Ms. 3484-3494. Il British Museum di Londra possiede i volumi I, II, III (Rpyal E V, 19 E III, 19 E 11. Franci, G. - Zago, E., La bella addormentata. Genesi e metamorfosi di una fiaba, Bari, Dedalo, 1984, p. 31.

2 Dal Parsaforesto, trad. italiana del Roman de Perceforest, cap. 39 e 45 del libro III, Venezia, Tipografia di Michele Tramezzino, 1558, visionabile interamente su Gallica, in gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k8588719. Franci, G. - Zago, E., La bella addormentata, cit., p. 77.

3 Fosco è il leale servitore di Malefica, l’aiutante, che al suo comando può assumere diverse forme ed eseguire i suoi ordini. Egli, dopo il taglio delle ali, sarà trasformato da corvo in uomo e diverrà le sue ali, i suoi occhi, la sua lunga mano. All’inizio è una figura maschile dominata dal femminile, ma lentamente partecipa al dolore di Malefica, la consiglia, la rimprovera e alla fine si intravede una collaborazione e un gioco affettuoso tra i due.

4 Queste alcune tra le critiche al film che nel 2010 ha aperto la Sezione Orizzonti alla 67 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: «Pedante, [...] un’opera che vorrebbe essere femminista, ma che risulta complessivamente minore, senza ritmo e frammentata. Una delle tante cose, che in un festival finisco per non lasciare traccia» (Albanese, 2010); «[...] un’opera minore, meno pregnante e provocatoria di altri suoi lavori. [...] la tediosità di una storia fatta perlopiù di dialoghi nei quali i personaggi pronunciano, con tono inespressivo, frasi sentenziose Tutt’al più, i fans “senza se e senza ma” della regista [...] troveranno un aggiornamento sui temi e sulle “ossessioni” tipiche del suo cinema Una delle tante cose, che in un festival finisco per non lasciare traccia» (Vignati, 2010); «Il problema è che è il cinema stesso della Breillat a risultare ormai spogliato di qualsiasi appeal. Il suo voler intrecciare il limite estremo di immaginario (la fiaba) e il limite estremo del “concreto” (il sesso), e il suo voler individuare il punto in cui dal primo si passa all’altro abbandonando un’infanzia notoriamente tutt’altro che asessuata, proprio non funziona» (Grosoli, 2010).

5 «Breillat cerca di mutare le fiabe di Perrault e Andersen in un racconto di formazione (con la bella addormentata che entra ed esce da prevedibili esperienze), scimmiottando la storia di Andersen e infilando qualche corposa scena di sesso in un film che complessivamente non va da nessuna parte. È un lavoro che riduce il femminismo a luoghi comuni» (Zipes, 2012: 67).

6 Nella varie versioni della fiaba il nome della fata cattiva non è specificato. Carabosse è il nome che Ivan Vsevolozhsky le dà nel 1889 nel libretto scritto per un nuovo balletto, basato sulla fiaba di Charles Perrault e musicato da Čajkovskij e diviene nel tempo uno dei nomi attribuito alla fata maligna.

7 Breillat recupera una frase del racconto di Perrault che servirà a sostenere il discorso del sogno attraverso il film: «[...] possiamo presumere , anche se la storia non lo dice che la buona fata avesse provveduto a rallegrare il suo lungo sonno con sogni piacevoli» (Perrault, 2016 (2011): 18).