L’EUTANASIA, LA MORTE E L’IMPORTANZA DELLA CORPOREITÀ IN ACCABADORA DI MICHELA MURGIA

A MURDER IN ITALIAN LITERATURE: EUTHANASIA, DEATH, AND THE IMPORTANCE OF CORPOREALITY IN ACCABADORA BY MICHELA MURGIA

Nikica Mihaljević

Università di Spalato

Riasunto:

In questo articolo esaminiamo, nel romanzo di Michela Murgia, l’omicidio che avviene in seguito all’atto di eutanasia, intesa come la cessazione di vita di una persona dalla parte di un’altra però senza classificare questo atto come un crimine ma concentrandosi principalmente sulle dinamiche e sugli aspetti ineludibili dell’atto. Murgia mette in contrasto la vita alla morte usando il personaggio di Accabadora, la quale, da un lato, termina la vita di personaggi, cambiando, allo stesso tempo, il corso naturale degli eventi, mentre, d’altra parte, prende in affidamento una bambina allo scopo di darle condizioni di vita migliori. Altrettanto importante, in questa analisi, è l’atteggiamento psicologico dei personaggi di Murgia, fortemente connesso con l’aspetto etico dell’atto, il quale inevitabilmente e contemporaneamente incoraggia le reazioni di altri personaggi.

Parole chiave:

eutanasia, omicidio, sofferenza, corporeità

Abstract:

In this paper, we examine in Michela Murgia’s novel the murder carried out by the act of euthanasia, seen as the termination of life of a person by another person, but without classifying this act as a crime, and focusing primarily on the dynamics of the act and on the ineluctable aspects of this act. Murgia opposes the life to death by using the character of Accabadora, which, on one hand, ends life of some characters by changing, at the same time, the natural sequence of events in a human life, while, on the other hand, she takes into custody a child giving her better life conditions. Equally important, in this analysis, is the psychological attitude of Murgia’s characters, strongly connected with the ethical aspect of the act, which inevitably and at the same time encourages reactions of other characters.

Key word:

euthanasia, murder, suffering, corporeality.

La “buona morte”

Analizzando il tema dell’omicidio in letteratura incontriamo questo argomento anche in varie opere letterarie, non necessariamente classificabili nel genere del romanzo giallo, come, ad esempio, nelle opere in cui si problematizza il tema della soppressione non naturale della vita di una persona da parte di un’altra. L’esempio del genere lo troviamo nel caso dell’omicidio studiato in anticipo nonché concordato con la vittima stessa nel romanzo di Michela Murgia, Accabadora, nel quale è focalizzata la continua antitesi tra la vita e la morte proprio attraverso l’analisi della possibilità dell’uomo di decidere sulla fine della prima e sulle dinamiche della seconda. Vale a dire che, attraverso la rappresentazione di Accabadora, la donna che pratica l’eutanasia e pone fine alla vita dell’uomo in seguito ad un desiderio di quest’ultimo, come nel caso dei malati terminali, si affronta il senso della vita stessa, dato che proprio questa donna, non avendo figli, prende in affido una bambina, facendole da ‛seconda madre’, e in questo modo rivela il bisogno di prendersi cura di un’altra vita. Allo stesso personaggio è legata anche la sofferenza, la quale, in seguito alla mancata maternità, viene affrontata e diminuita proprio con l’atto dell’affido della bambina, come proprio questa protagonista ‛alleggerisce’ la sofferenza a coloro che le chiedono l’eutanasia. Risulta che, attraverso Accabadora, si da’, nell’opera, la possibilità ai protagonisti di ‛nascere due volte’ nonché di ‛morire due volte’ nonché a controllare la sofferenza.

Prima di passare all’analisi, bisogna sottolineare che nel presente intervento non si ha intenzione di classificare l’atto di eutanasia come crimine o no, ma lo si affronta semplicemente in quanto con esso si mette fine alla vita umana in modo non naturale, il quale avviene in seguito alla decisione di chi commette l’atto. In questo romanzo la sofferenza e la morte sono fortemente legate alla corporeità dell’uomo, ovvero alla presenza fisica di una persona nel mondo e alla sua esperienza vissuta proprio attraverso la corporeità.1 Non ci sorprende perciò che, in quest’opera della Murgia, Accabadora svolge il mestiere della sarta e cuce gli abiti che coprono e proteggono il corpo dell’individuo; in questo modo, l’autrice sposta l’attenzione dalla gravosità dell’omicidio al corpo umano e alla fragilità e la transitorietà di esso. Ciò significa che, con questa scelta narrativa, viene messa al centro dell’attenzione la cura di Bonaria per l’uomo in modo tale da preannunciare al lettore che anche l’atto stesso dell’uccisione non viene visto unicamente come l’assassinio ma anche come un gesto pietoso fatto soltanto con lo scopo di alleviare la sofferenza ad una vita arrivata al punto dell’estrema sofferenza. Ciò sarà visibile soprattutto quando ad uno dei protagonisti, dopo che Bonaria compie l’atto di eutanasia, viene indossato l’abito che gli aveva cucito proprio colei che pone termine alla sua vita. Nell’opera della Murgia, gli abiti rappresentano, quindi, la raffigurazione del corpo della persona, ovvero sono, in un certo senso, il loro doppio. Ciò significa che, focalizzando il mestiere della sarta, la Murgia maschera la volontà di un personaggio di curarsi della vita di un altro, ma anche di decidere della vita di un altro, attraverso la confezione degli abiti. Si arriva così, attraverso l’azione di cucire, al simbolo dell’atto volontario di dare o togliere la forma alla persona, ovvero di delineare la sua identità o di minimizzarla, di ridurla al corpo nudo.

Si problematizza, quindi, in quest’opera la possibilità di capovolgere l’ordine naturale delle cose, ovvero di influenzare la nascita e la morte nonché si esamina la legittimità di questo atto. Ovviamente, in questo modo si mette a fuoco in primo luogo la giustezza ‛dell’opera di Dio’ che non garantisce all’uomo la salvezza o gli evita la sofferenza, mentre proprio nell’accettazione della sofferenza il cristianesimo cerca di fornire all’uomo la visione di un ‛bene maggiore’ all’interno del quale anche la sofferenza ha senso. Riguardo a ciò occorre ricordare l’ipotesi sostenuta da Luigi Pareyson il quale riprende la tesi sulla giustificazione e, in un certo senso, sulla necessità della sofferenza, definendola come “l’unica cosa capace di dare un significato alla vita”. (Pareyson, 2000: 340).

La sofferenza ci mette alla prova proprio attravero la nostra percezione della corporeità la quale cambia mentre si soffre. Ciò significa che, essendo la sofferenza spesso legata al corpo, anche quando si tratta di stati mentali, come angoscia, depressione e altri, anche questi influenzeranno il corpo, causandovi diversi effetti. Da ciò risulta che la percezione della sofferenza è strettamente legata al corpo. Quando, poi, si ha il caso di una persona che soffre e che viene osservata da un’altra, in quest’ultima viene suscitato il sentimento della pietà, causata proprio dalla mancanza di senso della vita nella persona che soffre. Ricordiamo che Antonio Malo sottolinea che “il dolore, l’ansia e l’invidia non ci permettono di cogliere la positività che il vivere ha, ma solo la negatività della sua mancanza”. (Malo, 2003: 126). Ciò fa pensare che la mancanza del senso della vita possa portare alla contemplazione della possibilità di terminare la vita della persona sofferente con un atto voluto da parte di qualcun altro, che in questo modo, mosso dalla pietà, eseguirebbe un atto misericordioso sul malato. Di conseguenza, parliamo del concetto dell’eutanasia, ovvero della cosiddetta ‛buona morte’2. Una delle definizioni dell’eutanasia la troviamo nell’opera di Seamus Cavan che definisce l’eutanasia come “l’atto di omicidio o di consenso alla morte degli individui malati terminali o feriti gravemente (persone o animali domestici) in modo relativamente indolore per motivi di pietà” (Cavan, 2000: 12). e mette in rilievo che l’eutanasia scatena sempre posizioni antitetiche ma rimane senza dubbio una questione complessa e controversa, per la quale non è facile spiegare se sia suicidio o omicidio e se possa essere definita un crimine. (Cavan, 2000: 9).

Gail Tulloch richiama la nostra attenzione sulla distinzione tra l’eutanasia volontaria e quella involontaria nonché l’eutanasia attiva e quella passiva. (Tulloch, 2005: 33) Con l’eutanasia volontaria l’autrice riconosce l’atto con cui la persona che soffre chiede da sola al medico o ad un’altra persona di agire con un’iniezione letale per spronare la morte. L’eutanasia involontaria avviene quando la morte è il risultato di vari atti eseguiti senza consenso o è imposta, oppure è effettuata nei casi in cui il consenso non ci possa essere, come nel caso dei pazienti in stato vegetativo permanente. (Tulloch, 2005: 33). Si distingue anche l’eutanasia passiva dall’eutanasia attiva dove l’eutanasia passiva è spesso definita come l’atto di lasciare qualcuno morire, ovvero, più concretamente, cessare o non effettuare un trattamento medico il quale terrebbe la persona in vita, come attaccare il malato ad un respiratore o non nutrirlo artificialmente. Parliamo dell’eutanasia attiva, invece, quando una persona causa la morte di un’altra persona malata senza la partecipazione di quest’ultima. (Cfr. McDougall – Gorman, 2008: 2).

Bisogna sottolineare che quello che sempre accompagna l’eutanasia è l’atteggiamento di un osservatore davanti al corpo che soffre. Salvatore Natoli ci ricorda che “la corporeità è l’esperienza costante del nostro essere noi stessi. In noi non c’è separazione tra corpo e mente, perché l’esperienza prima della mente è proprio il pensarsi come corpo”. (Natoli, 2012: 15). Di conseguenza, “[L]’esperienza della nostra corporeità è infatti il corpo vivo come distinto e attivo”. (Natoli, 2012: 19). Ciò fa pensare che, nel momento in cui manca la possibilità di sentire il corpo, ovvero quando non possiamo più percepire “il nostro corpo come rapporto, non come cosa in sé” (Natoli, 2012: 19), ovvero, nel caso concreto dell’opera della Murgia, proprio quando il corpo dei protagonisti non permette più loro di relazionarsi agli altri, scatta la voglia di porre fine alla propria vita e, a questo punto, diventa fondamentale la volontà di chi può effettuare questo atto. Significa che l’ambiente stesso non ‘ci permette’ di evitare di sentire o percepire il nostro corpo dato che, nel caso in cui non riusciamo più a percepirlo, ci stimola tuttavia ad avere rapporti sociali e non permette ad un individuo di evitarli.3 (Natoli, Inoltre, si conferma che la sofferenza, a prescindere dal fatto se essa sia emotiva, mentale o fisica, viene comunicata sia attraverso l’anima che attraverso il corpo a tal punto che l’anima e il corpo diventano inseparabili nella sofferenza. Franco Rella ci ricorda l’inscindibilità della sofferenza, del corpo e dell’essere:

Ma il corpo si scopre, si denuda, si offre anche nella sofferenza, anche in quella dimensione estrema della soffere nza che è la vecchiaia. La sofferenza, si è detto, inchioda l’io al corpo: ne fa un non-oltre. […] Eppure, anche nella sofferenza, come nell’eros, c’è un punto di sporgenza verso altro, oltre i confini della sofferenza stessa. (Rella, 2012: 22)

La doppia nascita e la doppia morte

Proprio il romanzo della Murgia metterà in discussione la possibile apertura nei confronti dell’altro nel caso della ‛buona morte’, ovvero dell’omicidio con l’eutanasia. Il romanzo Accabadora si apre mettendo in rilievo il contrasto morte-vita, dando in primo luogo una particolare importanza alla ‛manipolazione’ della vita, con l’intenzione di far rilevare che la vita ‛può essere data’ alla stessa persona più di una volta, ma non necessariamente attraverso l’atto di procreazione:

Fillius de anima.

È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai. (Murgia, 2009: 3)

La possibilità di ridare la vita ad un essere umano, prendendolo in affido e assicurandogli condizioni di vita migliori rispetto a quelle avute nella famiglia in cui era nato, sarà più avanti contrastata dalla possibilità di togliere la vita ad un essere umano, ma sarà anche legata a questo atto, dato che nel romanzo la Murgia sottolinea varie volte che niente può avvenire nella vita casualmente, né la nascita né la morte:

- Accadono da sole… - mormorò, sorridendo senza allegria. – Sei nata tu forse da sola, Maria? Sei uscita con le tue forze dal ventre di tua madre? O non sei nata con ‘aiuto di qualcuno, come tutti i vivi?

[…]

- Altri hanno deciso per te allora, e altri decideranno quando servirà di farlo. Non c’è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri a ogni angolo di strada, Maria, e tu dovresti saperlo più di tutti. (Murgia, 2009: 117)

Anche la stessa possibilità di ‛assicurare’ un’altra vita ad un essere umano non esclude la negazione di un’altra vita, quella che il bambino ottiene con la nascita, ovvero nella famiglia in cui nasce. Nel momento in cui si decide di farlo allontanare e di affidarlo ad un’altra famiglia, in un certo senso gli si toglie una possibilità e gli si assegnano altre condizioni, le quali, alla fine, non necessariamente devono dimostrarsi migliori rispetto a quelle iniziali. Allo stesso modo, attraverso gli atti di Bonaria Urrai, Accabadora, si problematizza la scelta di togliere la vita ad un essere umano per sottrarlo alla sofferenza. Infatti, anche il primo caso quando il bambino viene preso in affido dalla famiglia diversa da quella in cui è nato, viene messo in discussione nell’opera: “ - Be’, è che mi sembra una cosa così insolita che una bambina venga sottratta… consensualmente, per carità, ma comunque venga via dalla famiglia così, senza mostrare traumi…”. (Murgia, 2009: 22).

Il concetto che colpisce l’attenzione del lettore in questa citazione è il fatto che il dubbio nasce in primo luogo riguardo al consenso che ci possa essere o no a proposito dell’affido da parte di chi è oggetto dell’atto. Più precisamente, nel caso dell’affido del bambino ad una nuova famiglia si mette in dubbio il suo consenso e si riflette su quanto possa essere cosciente del giudizio che le condizioni sono migliori rispetto a quelle iniziali. Allo stesso modo, più avanti nella trama, si metterà in discussione l’esaudimento del desiderio della morte da parte di alcuni protagonisti, conseguenza del consenso che danno alla persona alla quale chiedono di compiere l’eutanasia, nonché la volontà di Accabadora nel soddisfare la richiesta delle persone sofferenti.

Affrontando l’importanza del ruolo nella nascita e nella morte dei protagonisti, in primo luogo l’immagine della madre naturale viene sostituita dalla madre adottiva o, meglio, il concetto della madre naturale viene scambiato con la madre che cresce il bambino. Accabadora, così, prende il posto della madre naturale della bambina che prende in affido, in un modo del tutto spontaneo:

- Volevo chiederle, a proposito dei disegni che fa Maria… cosa intende esattamente quando dice che dovrebbe disegnare la vera madre?

La maestra rimase interdetta […].

- Non mi fraintenda, mi riferivo alla madre natuale, non volevo certo svilire il vostro rapporto…

- La madre naturale, per Maria, è quella che lei disegna quando le chiedono di disegnare sua madre. (Murgia, 2009: 22)

Si equiparano in questo modo i concetti principali nel romanzo, la vita e la morte, e uno assume il significato dell’altro, mentre il lettore viene preparato per percepire la morte come un atto soggetto alla volontà dell’individuo a seconda dei cambiamenti della situazione in cui si trova la persona che sta per nascere o morire, nonché si associano, sia la maternità stessa, sia il rapporto tra madre e figlia alla morte, o, meglio, al rapporto di soggezione dell’una all’altra; perciò Maria conclude che il legame con la madre diventa assoluto soltanto con la morte: “ - Cosa volete dirmi, Tzia… che io diventerò veramente vostra figlia solo quando sarò morta?”. (Murgia, 2009: 25).

L’argomento dell’eutanasia viene chiaramente e direttamente affrontato nell’opera solamente quando uno dei protagonisti, Nicola Bastíu, finisce per essere ferito gravemente in un incidente al punto tale che gli viene amputata la gamba. Questo fatto porta il protagonista ad una depressione profonda e scatena in lui i ragionamenti sulla possibilità di influenzare la morte nonché di influire sul ritmo con il quale la cessazione delle funzioni biologiche avviene nell’uomo e, ancora una volta, accentua il contrasto tra vita e morte. Questi suoi ragionamenti diventano trasparenti nel dialogo con Bonaria: “- Non è prendendoti gioco di me che cambierai le cose della vita -. […] – Posso cambiare quelle della morte, però. O potete farlo voi…” (Murgia, 2009: 65-66). Con queste parole l’autrice sposta l’attenzione del lettore al senso della vita che scompare o che non può più essere percepito dalla parte della persona che soffre. Perciò la conclusione di Nicola Bastíu sulla possibilità di manipolare la morte non sorprende ma rappresenta una logica risposta alla mancanza del senso nella vita di chi soffre. Lo conferma Nicola stesso quando dice: “ - E io sono morto già, ma non mi possono sotterrare.”4 A questo punto, come si rileva nell’opera di Natoli, subentrano altre ragioni che guidano la volontà e la decisione dell’uomo in una direzione, ovvero vi hanno luogo “le ragioni del corpo, [le quali] sono molto più forti delle nostre ragioni”. (Natoli, 2012: 26). Si testimonia, quindi, una nuova percezione della corporeità causata dalla sofferenza che ci spinge a vedere il corpo inscindibile dall’anima, e, dall’altra, come una parte di questa unità, di questa diade, nella quale il primo elemento condiziona del tutto il secondo. La sofferenza, quindi, viene congiunta alla vita e, allo stesso tempo, contrastata ad essa:

L’angoscia appare così come una sofferenza psichica in cui si sperimenta l’opposizione radicale al vivere, cioè la sua mancanza di senso. Da questo punto di vista l’angoscia non solo appartiene alla sofferenza, ma manifesta il fondamento di tutti gli altri vissuti di sofferenza, cioè si fa scoprire la sua essenza immutabile: la mancanza di senso. […] Il dolore umano […] non è semplicemente uno stato somatico-psichico corrispondente ad una disfunzione organica, bensì è la comprensione di quello stato come mancante di senso; da qui il desiderio di liberarsene attraverso appunto la ragione, […].(Malo, 2003: 125-126)

È chiaro che la ragione non può sempre trovare la soluzione alla mancanza di senso che il dolore comporta, se non a condizione che si accettino tesi come, ad esempio, quelle del cristianesimo le quali giustificano la sofferenza e proprio nell’esperienza del dolore trovano significato e valore. Di conseguenza, nell’opera si porta avanti il ragionamento sulla manipolazione della morte con il raziocinio e sulla negazione di essa, percepita in primo luogo attraverso la sua imprevedibilità e il suo rifiuto e, inoltre, sulla manipolazione del dolore, la quale risulta, allo stesso tempo, legata strettamente alla manipolazione della morte.

Tuttavia, la Murgia non vuole facilitare la percezione dell’atto di eutanasia con la sua giustificazione. Così, nella descrizione dello stato emotivo del protagonista che tenta di convincere Bonaria di fargli l’eutanasia, in un primo momento Accabadora assume un atteggiamento contrario, aumentando proprio con la sua esitazione il grado di sofferenza a cui il protagonista è esposto. Indugiando a soddisfare la richiesta di Nicola, attraverso la figura di Bonaria l’autrice pone l’attenzione sulla giustezza del ragionamento di Nicola e sulla decisione di quando e come porre fine alla vita di una persona: “ - Credi davvero che il mio compito sia ammazzare chi non ha il coraggio di affrontare le difficoltà? […] – Quello è il compito di Nostro Signore, non il mio.” (Murgia, 2009: 66). A questo suo iniziale rifiuto, tuttavia, segue la contrapposizione all’indisponibilità proprio attraverso il riferimento all’atto misericordioso che subentra nel momento in cui si ha davanti un malato terminale o un individuo che soffre a tal punto che il suo dolore diventa insopportabile.5 Infatti, il protagonista stesso, che è in questo caso colui che non riesce a trovare il senso della sofferenza e vede nella morte l’unica soluzione, commenta l’atto di eutanasia come un atto che sottintende “[…] aiutare chi lo vuole a smettere di soffrire.” (Murgia, 2009: 66). Quindi, nella citazione l’autrice individua due elementi indispensabili per effettuare un atto di eutanasia: la volontà e la disponibilità, da parte di chi deve compiere l’atto, di condividere la stessa convinzione come colui che chiede l’eutanasia nonché la decisione di non voler più soffrire, da parte di chi chiede l’eutanasia. A tal proposito, Murgia comunque accentua il grado di dolore che Nicola Bastíu sente giustificando così la misericordia che subentra nella persona che si trova davanti al sofferente.

È importare rilevare che la tesi che la sofferenza abbia un senso viene messa in discussione proprio attraverso la descrizione dell’atteggiamento di Nicola dopo l’introduzione di un altro protagonista, Don Frantziscu, il quale, quando visita Nicola, viene aggredito verbalmente da quest’ultimo:

- […] se dovete benedirmi beneditemi, e poi andate via. Avere tempo da buttare non significa che lo butterò con voi. […]

– Non sono venuto a benedirti. Le benedizioni non si impongono a nessuno.

– Allora cosa? A maledirmi non c’è bisogno, lo vedete da voi.

[…]

- […] Una cosa è dire «sono storpio per vocazione», ma intanto quello che non si usa è sempre lì, sia mai che uno cambia idea… […] – Invece io non posso cambiare idea. (Murgia, 2009: 74)

Si accentua con queste parole la limitatezza della vita dell’uomo e la delimitazione nella sofferenza nonché l’imprevedibilità della sofferenza stessa della quale non sempre è facile trovare il senso. Le parole di Nicola vengono confutate dal personaggio di Don Frantziscu, attraverso il quale si ribatte la tesi che proprio nella sofferenza a volte scatta la rabbia contro chi non ha subito lo stesso dolore e ne è stato risparmiato nonché si rileva che questo sentimento può essere placato e vinto soltanto attraverso la fede. Sottolineando la normalità della reazione di Nicola, Don Frantziscu cerca di convincerlo di assumere un altro atteggiamento: “ - Quindi, se ho capito bene, hai deciso di far sentire in colpa tutti quelli a cui sono rimaste due gambe, oltre a farti commiserare […]. – È normale, Nicola. Lo fanno in molti, e di solito sono coloro che non hanno il conforto della fede, o non lo vogliono avere.” (Murgia, 2009: 75). Però il rifiuto della fede e dell’accettazione del dolore sarà un fattore indispensabile per portare avanti l’atteggiamento di chi decide che la sofferenza della sua vita nonché la vita stessa con il dolore sia inaccettabile e senza senso, ed esattamente questa rinuncia alla sofferenza ed alla vita sarà descritta nei ragionamenti di Nicola e si trasformerà in una forza distruttiva che lo porterà all’allontanamento dalla vita che continuerà senza di lui, mentre lui stesso si preparerà per la morte.6

Intanto, dopo aver rifiutato, con l’atteggiamento di Nicola, l’opzione di trovare la salvezza nella fede, la Murgia procede con le dinamiche narrative che ci porteranno verso l’atto dell’omicidio. Così, nel dialogo tra Bonaria e Nicola, alle ragioni di Nicola vengono contrapposte le ragioni degli altri i quali lo preferiscono vedere vivo e sostengono che la vita merita di essere vissuta, sempre con lo scopo di avvalorare l’esistenza dell’uomo nonostante tutto e nonostante qualsiasi difetto che riguardi la corporeità:

- Tua madre ti considera vivo, e ti vuole il bene dei vivi.

- Mia madre trova motivo di contentezza solo nel prendersi cura di qualcuno. Non le par vero che io sia tornato bambino, ma non è questo il motivo per me di stare al mondo.

- Di una cosa simile ne morirebbe, e anche tuo padre.

- Moriranno comunque, e dopo chi si occuperà di me? (Murgia, 2009: 81)

La presenza di altri familiari nella vita di Nicola pone al centro dell’attenzione la questione se, nell’atto dell’eutanasia, uno degli elementi necessari sia includere nel fatto anche i familiari, ottenendo il loro ‛consenso’ per effettuare la ‛buona morte’, oltre alla volontà di effettuare questo atto espressa dalla parte della persona sofferente. Nel caso del romanzo della Murgia, la possibilità di un’approvazione dalla parte dei familiari viene subito rifiutata da Nicola, e questo aspetto nel romanzo viene usato per eliminire la possibilità di dare la responsabilità per l’atto che si sta per compiere anche ad altri protagonisti, limitandosi soltanto sul bisogno e sulla volontà del sofferente:

- Non proverei nemmeno a cercare di ottenerlo, ma se voi voleste, c’è un modo per evitare di chiederglielo.

- Non esiste quel modo, e se esistesse non lo userei -. La voce di Bonaria era perentoria, ma gli occhi erano interrogativi, e Nicola se ne sentí incoraggiato.

- La notte di Ognisanti. Quando la porta viene lasciata aperta per la cena delle anime, voi potete entrare e uscire senza sospetto! Al mattino mi troveranno morto nel mio letto e penseranno a una disgrazia. (Murgia, 2009: 82)

Optando per una morte che, nonostante sia un omicidio, viene progettata in modo tale di essere riconosciuta da altri protagonisti come una morte naturale, il tono deciso della voce di Nicola insiste nei tentativi di convincere Bonaria a compiere questo atto, perseverando nella sua decisione di farle cambiare opinione e, nello stesso tempo, focalizzando l’attenzione del lettore sul fatto che l’eutanasia possa essere percepita come morte naturale, dato che scompare un elemento inscindibile della vita umana, ovvero il senso della vita, e, conseguentemente, anche la vita, in un certo senso, si conclude contemporaneamente alla scomparsa del senso della vita, nonostante la fine di essa viene coscientemente decisa: “Se mi aiuterete, passerà per morte naturale. Altrimenti il modo lo trovo io.” (Murgia, 2009: 82).

Tuttavia, per evitare di descrivere l’atto di Bonaria come semplice e di delinearlo come conseguenza naturale della richiesta di un individuo sofferente, la Murgia fa esitare Bonaria nel gesto con il richiamo alla memoria di un ricordo del suo passato, che Nicola rievoca per caso portando l’attenzione sul fatto che lui stesso non può sopportare di vedersi ridotto in quelle condizioni di vita fino alla morte naturale, nonostante gli altri intorno a lui lo possano fare. Proprio quelle stesse parole aveva usato il promesso sposo di Bonaria tanto tempo prima, prima di esser mandato come soldato in guerra, esprimendo chiaramente che ciò che per gli altri può essere accettabile, quando si tratta della propria vita, la prospettiva cambia. Perciò nella mente di Bonaria, quando si arriva al momento di prendere la decisione se compiere l’atto o no, riecheggiano le parole del fidanzato:

- Non sto scherzando. Mi vorresti anche storpio? […]

- Io ti vorrei indietro in tutti i modi, basta che non sia morto.

La risposta categorica di Bonaria non l’aveva rassicurato. La voce di Raffaele in quella posizione aveva un tono più cupo del solito.

- Forse tu puoi sopportare l’idea di avermi indietro come un verme, ma io preferirei morire dieci volte da vivo che vivere anche solo dieci anni come uno che è morto. Se mi succede una cosa simile, faccio come Barranca e mi sparo. (Murgia, 2009: 84)

Nella parte citata la Murgia vuole portare l’attenzione del lettore al fatto che l’atteggiamento davanti alla sofferenza e la limitatezza che essa porta con sé possa essere diverso da persona a persona, e si propone, in questo modo, uno dei modi per capire colui che nella sofferenza decide di chiedere l’eutanasia.7

Tuttavia, davanti all’importanza dell’atto stesso, Bonaria cerca di deresponsabilizzarsi, esentandosi dalla responsabilità per l’atto che sta per compiere, poco prima di effettuarlo, e cercando di dare la responsabilità a Nicola stesso. Ciò significa che, attraverso questo suo atteggiamento, viene mostrato che, nel caso dell’eutanasia, il consenso da parte della persona sofferente la quale chiede l’eutanasia non necessariamente deve avere un significato assoluto per gli altri intorno a lui e non deve essere percepita come una decisione lucida perché la sofferenza altrui non può essere percepita né capita del tutto da parte di altre persone se non da chi soffre. Inoltre, cercando di convincere Nicola di cambiare opinione e di rinunciare all’eutanasia, Bonaria conferma che il senso della vita lo può cercare soltanto la persona che soffre e in ciò non si può avere l’aiuto dell’altro, come, invece, avviene nell’atto stesso di nascita e di morte:

Nicola rispose troppo in fretta, come non volesse lasciarsi il tempo di dubitare.

- Non ho cambiato idea. Sono già morto, e voi lo sapete.

[…]

- No, Nicola, non lo so. Solo tu puoi sapere. Io sono venuta pronta, ma prega che il Signore faccia cadere su di te la cosa che mi chiedi, che non è benedetta, e nemmeno necessaria…

- Per me è necessaria, - disse Nicola accettando la maledizione con un cenno lieve del capo. (Murgia, 2009: 89)

L’atto stesso dell’omicidio viene descritto nel romanzo in un breve paragrafo, con poche spiegazioni del come viene eseguito, perché la maggior tensione nel testo viene data alla sofferenza e alla decisione se compiere il fatto o no e non sulla modalità con la quale viene compiuto: in un modo molto conciso viene raccontato come un fumo tossico viene fatto inspirare a Nicola e ciò lo fa addormentare, mentre poco dopo gli viene premuto un cuscino sul viso, il che non scatena nessuna reazione da parte del sofferente, come se fosse una conferma del suo consenso alla morte: “[…] non sobbalzò né si oppose. O forse non si sarebbe opposto comunque, che non era cosa per lui morire diversamente da come era vissuto, senza respiro.” (Murgia, 2009: 90).

L’immedesimazione con la madre: l’ultima madre e l’ultima figlia

Lungo tutta la trama, all’atto dell’omicidio e alla volontà di morire è contrapposta la volontà della figlia di Bonaria presa in affido, Maria, di vivere. L’importanza della vita di Maria viene accentuata non solo attraverso l’atto di Bonaria che, avendola presa in affido, le ha dato le condizioni di vita migliori rispetto alla famiglia in cui era nata, ma soprattutto attraverso l’immedesimazione che avviene all’interno del rapporto madre-figlia e attraverso la percezione del corpo della madre da parte della figlia. Non per caso, dopo che l’atto di portare la ‛buona morte’ viene compiuto sul corpo di Nicola, si passa a raccontare del momento in cui per la prima volta nella vita Bonaria ha assistito all’atto di eutanasia, giustificandolo con la spiegazione che in una tale situazione era meno lecito non fare niente che compiere l’atto di omicidio: “Quando la stessa donna aveva chiesto la grazia, le altre avevano agito per lei in un clima di condivisa naturalezza, dove atto illecito sarebbe parso piuttosto il non far nulla.” (Murgia, 2009: 93). Ed è qui per l’ennesima volta nel testo, ma per la prima volta insieme con il racconto dell’atto stesso, che si mette in rilievo che la morte sottintende anche la vita, sia per il fatto che la vita degli altri comunque continua dopo la morte di colui che muore, sia per il fatto che la vita non avrebbe, forse, un’importanza così grande, se non ci fosse la morte a delimitarla: “[…] alla sofferenza della madre si era posto fine con la stessa logica con cui era stato reciso il cordone ombelicale del bimbo.” (Murgia, 2009: 93) Inoltre, questo contrasto vita-morte diventa visibile soprattutto alla fine del romanzo, quando Maria, nonostante l’iniziale rifiuto, accetta l’atto di eutanasia compiuto da Bonaria, e si immedesima con lei, soprattutto con l’atto finale che questa volta è Maria a commettere ponendo fine alla vita di Bonaria. Con l’immedesimazione nella madre avviene contemporaneamente anche la condivisione del dolore che in questo modo diminuisce nella figlia.8

Bisogna mettere in rilievo che la trasformazione che avviene in Maria è descritta come il risultato di una lunga crescita e conoscenza nonché attraverso la costruzione del rapporto con la madre alla quale Maria non può che arrivare soltanto dopo un lungo percorso il quale culminerà proprio nel contrasto tra la vita che Bonaria aveva ‛dato’ a Maria e la vita di Bonaria stessa alla quale Maria sente di dover porre fine. Ed è proprio attraverso il rapporto con il corpo della madre, di cui Maria si prende cura fino alla fine, che la protagonista conferma che il legame tra la transitorietà e il corpo, nel nostro relazionarsi con gli altri, è inscindibile. Riguardo a ciò Franco Rella ricorda che l’esistenza è percepita in primo luogo attraverso la corporeità e che le trasformazioni che coinvolgono il corpo non possono non cambiare anche l’identità stessa:

[…] io sono perché il mio corpo si muove e occupa uno spazio, è soggetto al tempo e al mutamento. Leggo il mio movimento misurando la mia posizione in relazione a quella di altri corpi, percepisco il mio mutamento – e quindi il trascorrere del tempo – vedendo le trasformazioni di un volto che mi è stato prossimo, e che si decompone nel corso degli anni. (Rella, 2012: 34)

Perciò, quando il corpo della madre non può più muoversi né relazionarsi con altri, Maria si sente pronta e spronata a fare l’atto di eutanasia nei confronti di Bonaria, dato che non riesce più ad individuare il senso della vita di Bonaria. L’atto di eutanasia, quindi, avviene più volte in questo romanzo e viene compiuto da parte di diversi protagonisti così che la ripetizione dell’atto ha lo scopo di sottolineare l’aspetto misericordioso dell’eutanasia, soprattutto quando lo compie una figlia nei confronti della madre alla quale è grata, più che a qualsiasi altra persona, per la vita che le aveva dato.

Bisogna evidenziare che l’impressione che si ottiene dalla lettura dell’opera di Murgia è che l’autrice voglia porre più attenzione sulla sofferenza, la quale può portare a ragionare sulla propria morte e a desiderarla, nonché sulla discussione sull’atto stesso dell’omicidio dal quale vuole, invece, allontanare lo sguardo. Infatti, il continuo contrasto tra la vita e la morte serve anche a mettere in rilievo che non c’è vita senza sofferenza, e che, se si vuole escludere del tutto la possibilità della sofferenza, lo stato di cui possiamo parlare in tal caso è solo quello della morte, per la quale si può sapere se presupponga o no anche la sofferenza. Il testo fa pensare che la Murgia ci vuole sì far ragionare sulla legittimità dell’atto di eutanasia, ma soprattutto ci vuole far riflettere sul fatto che è difficile evitare di prendere una decisione ed assumere un atteggiamento risoluto davanti a chi soffre: appoggiare la scelta di alleviargli la sofferenza, anche nel caso in cui bisogna compiere un omicidio, uccidendolo, dando tuttavia una particolare importanza alla misericordia che è inclusa in un tale atto, o cercare di convincerlo che la vita va vissuta nonostante tutto. La sofferenza alla quale si accenna nell’opera viene soprattutto rappresentata attraverso la dimensione fisica e materiale della vita umana, ovvero attraverso la corporeità la quale fa percepire la sofferenza in un modo evidente. Perciò non sorprende che spesso la corporeità viene rappresentata come unita in modo indissolubile alla sofferenza, la quale non si può evitare ma si può soltanto non considerare, come non si può misurare la quantità della sofferenza: “«Quindi il lutto serve a far vedere che c’è il dolore…», aveva commentato Maria […]. «No, Maria, il lutto non serve a quello. Il dolore è nudo e onnipresente, e il nero serve a coprirlo, non a farlo vedere.»” (Murgia, 2009: 98). La nudità del dolore in que
sto testo sottintende la sua continua presenza, la quale può, a volte, essere nascosta o non dichiarata ma non può essere esclusa dalla vita stessa. In ultimis, nella sofferenza e nel contesto dell’omicidio, in primo luogo viene messo l’individuo che è sempre coinvolto nella collettività dalla quale non può essere staccato nessun aspetto della sua vita. Questo fatto sprona ad osservare che nell’omicidio, come anche nell’eutanasia, l’identità individuale e l’identità collettiva sono strettamente legate. Di conseguenza, è ovvio che ogni vita nasce grazie all’esistenza di un altro essere umano, il che da’ la possibilità alla Murgia di sfidare il lettore nel ragionamento che, conseguentemente a quanto esposto, nemmeno la morte non può avvenire senza altre persone e fuori della collettività.

Riferimenti bibliografici

Agrò, F. E., “La malattia e la sofferenza dell’uomo, in quanto unità somatico-spirituale: inquadramento anatomo-fisiologico ed approccio clinico”, in R. Eslanda e F. Russo (a cura di), Homo patiens. Prospettive sulla sofferenza umana, Roma, Armando, 2003, pp. 15-67.

Bonelli, J., “Il senso della sofferenza”, in R. Eslanda e F. Russo (a cura di), Homo patiens. Prospettive sulla sofferenza umana, Roma, Armando, 2003, pp. 68-74.

Cavan, S., Euthanasia: The Debate Over the Right to Die, New York, The Rosen Publishing Group, 2000.

Malo, A., “L’angoscia come situazione limite della sofferenza”, in R. Eslanda e F. Russo (a cura di), Homo patiens. Prospettive sulla sofferenza umana, Roma, Armando, 2003, pp. 117-140.

McDougall, J. F., – Gorman, M., Euthanasia: a reference handbook, Santa Barbara, ABC-CLIO, 2008.

Murgia, M., Accabadora, Torino, Einaudi, 2009.

Natoli, S., L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Milano, Feltrinelli, 2010.

Natoli, S., La verità del corpo. Milano, Edizioni Albo Versorio, 2012.

Natoli, S.- Semeraro, M. D., Dolore, Trento, Il Margine, 2013.

Pareyson, L., Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino, Einaudi, 2000.

Rella, F., Ai confini del corpo, Milano, Garzanti, 2012.

Tulloch, G., Euthanasia - Choice and Death, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2005.

Vargas, C., “L’accompagnamento di chi muore altrove: sfide, problemi, strategie”, in C. Viafora e F. Marin (a cura di), Morire altrove. La buona morte in un contesto interculturale, Milano, FrancoAngeli, 2014, pp. 27-47.


1 A tal proposito, ricordiamo le parole di Cristina Vargas la quale rileva che la sofferenza inevitabilmente riguarda la sfera del corpo: “I diversi modi di approccio al tema del dolore e della sofferenza sono in connessione diretta con i differenti significati attribuiti al corpo e con i modi di intendere il rapporto corpo-società: non solo il dolore ha un impatto sull’individuo che va oltre la sfera della corporeità e investe il soggetto nella sua totalità, ma anche i significati attribuiti al dolore travalicano i confini della sfera biologica e sono spesso connessi alla dimensione religiosa, alla sfera della morale, all’emotività e al controllo sociale. Infine, il dolore è un’esperienza che può arrivare ad annientare la capacità comunicativa e simbolica dell’essere umano.” (Vargas, 2014: 36).

2 Anche la spiegazione della parola “eutanasia” la possiamo trovare, chiaramente, in vari autori: così Seamus Cavan spiega l’etimologia di questa parola dal greco eu, “buona”, e thanatos, “morte”, ricordando che il significato della parola va oltre alla spiegazione etimologica, cioè la parola “eutanasia” sottintende molto di più rispetto alla morte senza sofferenza e la sua carica emotiva richiama l’attenzione di chiunque, scatenando gli atteggiamenti nei confronti di essa che vanno da chi la considera un atto di misericordia, gentilezza e compassione, fino a chi, invece, ne è del tutto contrario e la considera il semplice atto di omicidio. (Cfr. Cavan, 2000: 8).

3 Salvatore Natoli accenna allo stretto rapporto tra la mente e il corpo e al fatto che la mente sia condizionata dal corpo: “[…] la mente va oltre i limiti della pelle ma non va oltre i limiti del corpo, perché la memoria è sempre una memoria del corpo. […] non conosciamo mai le ragioni del corpo; ciononostante il corpo è l’attualità oggettiva sempre presente in base al quale sono costruite le relazioni.” (Natoli, 2012: 18-20).

4 Murgia, 2009: 66. Uno degli aspetti fondamentali del dolore è, ce lo ricorda Natoli, il senso della limitatezza che esso comporta con sé e la quale è strettamente legata ad esso, anzi, è opposta al senso della vita: più cresce la limitatezza, più diminuisce il senso della vita: «Uno dei tratti dominanti ed insieme più tremendi della sofferenza è dato dal fatto che essa traccia un profondo solco di divisione a chi soffre. In tal modo, il dolore delimita. Il cerchio della sofferenza, in quanto esperienza di una limitazione radicale, è anche esperienza del limite e soprattutto della propria limitazione: la sofferenza è dunque una modalità classica tramite cui si fa esperienza della propria individualità e si conosce l’individuazione come principio e forma dell’esistere e del morire. La via del dolore consente all’uomo di costituirsi integralmente come individuo per la semplice ragione che nessuno è sostituibile nel proprio dolore così come non lo è nella propria morte.» (Natoli, 2010: 19). Proprio la coscienza di non poter essere sostituito nel proprio dolore, da cui non riesce a trovare la via d’uscita, porta il protagonista a contemplare sulla morte come l’unica via d’uscita dalla condizione in cui si trova.

5 Secondo Antonio Malo, sia l’invidia che la misericordia sono legate, attraverso la volontà stessa, alla sofferenza: “La sofferenza prodotta dall’invidia e dalla misericordia dipende, invece, direttamente dalla volontà. L’invidia, ad esempio, non può essere spiegata solo a partire dalla conoscenza razionale del male, poiché in realtà non si conosce un male, bensì di un bene; si potrà certamente obiettare che l’invidioso giudica quel bene come male, […]. […] l’invidioso non vuole quel bene per l’altro, cioè non accetta che l’altro abbia quel bene. Nella sofferenza che si sperimenta nella misericordia si vede ancora con più chiarezza il ruolo della volontà, in quanto non basta conoscere razionalmente il male dell’altro ma bisogna non amarlo. In definitiva, l’invidia è tristezza per i beni altrui; e la misericordia è tristezza per i mali altrui, l’atro; l’invidioso non ama il suo bene, mentre il misericordioso non ama il suo male.” (Malo, 2003: 120). La misericordia, quindi, sarebbe sì legata in primo luogo alla volontà dell’individuo, la quale è il fattore determinante della misericordia, ma sarebbe anche guidata dall’atteggiamento dell’individuo il quale sta per compiere un atto misericordioso nei confronti del male proprio in quanto non ama il male dell’altro. Si arriva in questo modo ad una delle possibili spiegazioni del decisivo fattore movente dell’eutanasia, nel caso in cui la si percepisca come un atto misericordioso.

6 A proposito, Salvatore Natoli sottolinea che ci sono due aspetti fondamentali nel dolore, il valore positivo e la forza distruttiva: “La valenza positiva del dolore consiste, quindi, nella possibilità di considerarlo sintomo e specchio di una parte di noi, nel suo spingerci a comprendere e a interrogarci su ciò che esso manifesta e, nello stesso tempo, nasconde. La sua forza distruttiva prevale, invece, se lasciamo che esso ci neghi ciò che lo travalica, ovvero ciò che lo provoca e ciò che gli conferisce senso, se lasciamo che rimanga fine a se stesso, sterile. […] Ci troviamo così situati in quell’ infra tra noi e il mondo: il dolore ci chiude in noi stessi, mentre la vita continua senza di noi.” (Natoli Semeraro, 2013: 9-10.).

7 A proposito della singolarità del dolore, ricordiamo le parole di Felice Eugenio Agrò il quale accentua alla differenza che ogni singola esperienza della sofferenza comporta: “Il dolore è un’esperienza somato-psichica caratterizzata da connotati biologici, affettivi, relazionali, spirituali, culturali non separabili tra loro. Ogni individuo impara ad esprimere il dolore con parole che sono il frutto di vissuti psicologici legati a esperienze traumatiche precedenti, soprattutto della propria infanzia ed adolescenza. Pur essendo, il dolore, un’esperienza cui partecipano tutti gli uomini, è difficile darne una definizione esauriente, e, ancor meno, riuscire ad elencare tutti i diversi tipi del dolore che ciascuno degli individui ha sperimentato nella sua vita […].” (Agrò, 2003: 17).

8 Riguardo a ciò, Johannes Bonelli ci ricorda che “[…] attraverso un portare e sopportare il dolore comune, insieme e l’uno per l’altro, nel quale uno è per così dire unito al dolore dell’altro attraverso una partecipazione amorevole e soprattutto attraverso un’attiva misericordia, per colui che soffre può essere essenzialmente alleggerita l’amarezza della sua malattia.” (Bonelli, 2003: 73).